Capitolo 68

 Quando mi fui ripresa dalla malattia e dalle ferite, per lo meno abbastanza da poter uscire dalla mia stanza con il benestare del dottore, mi informarono che mia madre verteva in condizioni gravissime e che, forse, non sarebbe vissuta ancora a lungo.

Leo mi chiese se me la sentissi di vederla un’ultima volta, di dirle addio.

Non risposi, ma mi lasciai condurre verso la stanza dove giaceva la donna, ormai morente.

Bussammo alla porta e dopo pochi istanti ne uscì il dottore, arrossato e stanco. Leo gli chiese come stesse la paziente e l’altro sospirò, uscendo cautamente dalla porta per non disturbare.

«Mi rincresce molto dovervelo dire,» gemette guardandomi con gli occhi colmi di mortificazione, «ma per quanto io provi a fare, vostra madre sembra intenzionata a lasciarsi andare. Io… non so più che fare, sono tremendamente desolato.»

Scossi la testa, cercando di fargli capire che non era colpa sua.

«Vi ringraziamo per il vostro aiuto, andate pure a riposarvi,» lo congedò Leo, l’uomo lanciò un’occhiata titubante alla porta di mia madre, la sua espressione sembrava chiedersi se avesse sul serio provato qualsiasi cosa per salvarla o se la sua presenza non fosse più essenziale altrove che non lì, ma alla fine, la stanchezza prevalse e il medico dopo essersi inchinato, si avviò ciondolando lungo la scalinata.

Leo fece per entrare nella camera di mia madre, ma io lo bloccai, poggiando la mia mano sulla sua ferma sulla maniglia.

«Vorrei parlarle da sola,» mormorai, gli occhi fissi sulle nostre mani. Lui grugnì, e si chinò su di me per baciarmi piano la tempia.

«Sono qui fuori,» mi informò, e io sollevai il capo per sorridergli.

«Lo so.»

Entrai cautamente, scrutando piano oltre le cortine tirate del baldacchino, da dietro gli spessi tendaggi arrivava il rumore lieve del respiro di mia madre, molto arrochito e irregolare. Feci il giro del letto finché non trovai un lato del baldacchino ancora aperto, riuscendo finalmente a scorgere la minuscola figura della donna. Anche lei vide me, i suoi grandi occhi da cerbiatta mi puntarono, come se avesse visto un fantasma. Rimanemmo a fissarci per attimi che parvero ore, poi alla fine, lei distolse lo sguardo.

«Sei venuta a goderti questo momento?» chiese ironica. Non avevo mai sentito la sua voce così flebile, non mi ero mai accorta di quanto fossero piccole le sue mani, scarne le sue dita. Poteva essere a causa della malattia che la rendeva molto più emaciata, ma una parte di me sapeva che ero semplicemente io ad averla sempre vista troppo grande, troppo minacciosa.

«Sono venuta a dirti addio,» mormorai, sedendomi sulla sedia accanto a lei, vicino al tavolino con la borsa del dottore. Lei sbuffò e voltò il capo, per niente intenzionata a cedere nemmeno in quel momento.

«So che hai chiesto tu a Elisabeth di uccidermi,» iniziai, guardando le sue piccole dita stringersi istintivamente attorno alla coperta, tornò a voltare il capo nella mia direzione, silenziosa e attenta. «So che in cambio le avevi promesso… di immolarti.»

Sbuffò guardandomi con aria beffarda.

«Saranno tutti molto arrabbiati, mi chiedo come sia possibile che Leonard non abbia ancora sfondato la porta per venirmi a uccidere.»

Strinsi le palpebre per un breve istante.

«Leo non lo sa,» sibilai, ben conscia dal tono usato che ormai sbagliava il suo nome solo per il gusto di farmi innervosire. «Nessuno lo sa.»

Avevo pensato fosse meglio così, mamma era già stata demolita e umiliata a sufficienza, se fosse sopravvissuta, sarebbe stata comunque costretta a tornare a vivere in un luogo che a quanto pareva per lei era solo fonte di dolore e sofferenza.

Di nuovo, sbuffò, scuotendo il capo.

«Hai sempre cercato di compiacermi, povera piccola Desdemona.» Rise lisciando piano le coperte sopra il suo addome.

«È così strano?» chiesi, inclinando piano il capo e studiandola con attenzione. Lei corrucciò la fronte, perplessa. «Ti sembra così strano che io, tua figlia, abbia sempre e solo cercato di farmi amare da te?»

Mi guardò come se stesse fissando una macchia fastidiosa sul muro.

«Mi fa ridere che tu ci abbia provato.»

«Tu non hai mai provato a farti amare da tuo padre?» la domanda mi era uscita di getto e, quasi nello stesso istante, il suo intero corpo si tese, all’erta.

«Mio padre non voleva amarmi,» sputò, cercando di far forza sui gomiti per sollevarsi meglio tra i cuscini, le lunghe ciocche di capelli che le incorniciavano il volto così smunto. «Voleva solo delle scuse per potermi punire.»

Sollevai un sopracciglio con ironia.

«Ma veramente? Perché mi ricorda qualcuno?»

Lei mi fulminò con lo sguardo.

«Io non sono come lui!»

«Ma ti accanivi contro di me cercando ogni scusa possibile, talvolta solo per il gusto di farlo.»

Distolse lo sguardo, negando fino all’estremo di avere qualcosa in comune con quel padre da lei tanto odiato.

«Sai, alla fine non mi importava nemmeno così tanto di farti male,» riprese, continuando però a fissare il tendaggio scuro del suo baldacchino. «Volevo solo ferire tuo padre, figurati, quando ho saputo che Leonard sarebbe tornato in Inghilterra ho pensato che magari avrei potuto sedurlo, sai, mettere i due fratelli uno contro l’altro… ah, quanto mi sarei divertita a vederli litigare, magari arrivare a uccidersi per me.» Mi scoccò un’occhiata di traverso. «Ma immagino di non aver mai avuto speranze con lui.»

Mi sistemai meglio sulla sedia, i punti sulla spalla che tiravano leggermente a causa dello sforzo di tenere il gomito poggiato nella stessa posizione.

«Già, alla fine, devo ringraziarti. Se non ti fossi rifiutata di scrivere quella lettera quando ci giunse la notizia che Leo era stato ferito, probabilmente adesso non saremmo nemmeno qui.»

Soffiò, come se trovasse, ancora dopo tutti quegli anni, ridicola la sola idea.

«Figurarsi se avrei mai potuto essere io a scrivergli, a malapena sapevo che tuo padre avesse un fratello prima di quel giorno, non mi è mai importato niente della tua famiglia.»

«Sai mamma,» iniziai guardandola attentamente, «potrei dispiacermi per te per un sacco di cose che ti sono successe nel corso della tua vita, la lista non è certo corta, ma perché? A te non interessa la mia compassione, né mettere una pietra sopra i nostri trascorsi. Tu hai vissuto così tanto accecata dall’odio e dal rancore, dal desiderio di vendicarti, che ormai vedi solo quelli, forse non sai nemmeno come liberartene… forse è questa l’unica cosa di cui sono veramente dispiaciuta.»

Mi alzai, guardando un’ultima volta la donna che mi aveva messa al mondo e che aveva anche cercato di uccidermi, provai a memorizzare con attenzione quel suo volto emaciato, quella sua figura esile, perché era così che me la sarei ricordata da quel momento in avanti.

Le sorrisi, un sorriso amaro, senza sentimento.

«Addio, Mary.»

Non un suono provenne da lei, non un sussulto, un gemito, un grido di rabbia o un ansito di dolore, niente. Uscii nel più totale dei silenzi, la sua ultima stoccata rivolta contro di me.

 

Morì due giorni dopo, corrosa dalla febbre e dalla sua testardaggine. Nessuno pianse per lei, nemmeno durante il funerale che si svolse nel cimitero di Gloucester, né un volto mostrò dispiacere nel vedere quella bara calare nella fossa.

Il mio cuore si strinse un po’ quando me ne resi conto, mia madre era solo stata una donna con un pessimo carattere, vittima di eventi tremendi che l’avevano portata ed essere quello che era diventata, esattamente come Elisabeth.

Com’era possibile che una persona riuscisse a costruire un muro d’odio attorno a sé così spesso che una volta scorto ciò che si celava dall’altra parte, pure dopo aver scoperto la verità che l’aveva spinta ad erigere quel muro, restava difficile, se non impossibile, perdonarla. Difficile dimenticare con quanta sofferenza e dolore era stato posizionato ogni singolo mattone di quel suo muro. Mi sentii una persona piccola in quel momento, mentre guardavo i becchini spalare terriccio sulla sua cassa. Mi sentii sporca dentro, perché non riuscivo a essere triste, perché anche quando ormai era tutto finito, continuavo solo a pensare che, finalmente, ero libera.

 

Tornai con Leo verso la carrozza. Isaac, papà e Lucas ci precedevano, mentre Stevenson e Abigail erano dietro di noi. Nessun altro aveva assistito alla sepoltura. Mamma era morta esattamente nello stesso modo in cui era vissuta: da sola.

Mi si strinse il cuore a quel pensiero e mi aggrappai al braccio di Leo con tutte le mi forze.

Isaac montò sulla sua carrozza privata, papà invece ci chiese la cortesia di poter salire da solo con Lucas in una delle due carrozze che avevamo usato per arrivare al cimitero, perché aveva bisogno di parlare con l’altro uomo. Leo grugnì un assenso e quindi Stevenson, io e Abigail salimmo tutti sull’ultima carrozza rimasta, pronti a tornare verso casa.

Dopo tutti quei giorni, ancora non avevo avuto modo di parlare faccia a faccia con Abigail in merito a quello che era successo a Julie. Non mi era sfuggito che la ragazza fosse visibilmente scossa e turbata, i segni erano chiaramente visibili sul suo volto pallido.

Sentendosi evidentemente osservata, sollevò il capo e mi rivolse un debole sorriso al quale cercai di rispondere.

«Dove…» iniziai guardando James che sedeva accanto alla ragazza con espressione neutrale, «dov’è stata sepolta Julie? Mi piacerebbe portarle dei fiori.»

Abigail deglutì, sbattendo piano le palpebre.

«Mi… mi dispiace… Julie non—»

«Abbiamo bruciato i corpi,» spiegò James per lei. Annuii, guardando Abigail che sembrava star male.

«Ma non temete che qualcuno possa venire a cercare la duchessa?»

James scosse la testa spostando lo sguardo fuori dal finestrino.

«Siamo andati a casa sua… era vuota.»

«Come, vuota?» la notizia mi lasciò perplessa.

«Vuota, nel senso che non c’era nessun servo. Stando a quanto detto dai fattori che vivevano nelle vicinanze, aveva mandato tutti via dopo la morte del marito, per poter vivere a pieno il lutto della sua dipartita.»

Leo accanto a me si schiarì la voce, attirando l’attenzione di tutti.

«In realtà poi,» continuò riprendendo il discorso di James, «abbiamo scoperto perché avesse allontanato la servitù: non voleva rischiare di essere scoperta.» Strinse piano una mano guantata, fissando pensieroso quel pungo. «C’erano i vestiti, Desdemona. I vestiti, i gioielli, ogni oggetto che quelle ragazze avevano con sé al momento della morte. Era tutto appeso ai muri, come dei fottuti trofei di caccia.» I suoi occhi chiari saettarono verso di me, attenti. «Aveva scritto i nomi, le date, e—»

Scosse la testa, allungando un braccio per passarmelo attorno alle spalle.

«È stata una scena agghiacciante, ancora più che trovarsi i cadaveri davanti, cazzo. E lei ci viveva là dentro.»

Abbassai lo sguardo sulla mano stretta a pugno di Leo, poggiandoci delicatamente la mia sopra.

«Forse,» mormorò James fissando a sua volta le nostre mani unite, «non è il caso fare questi discorsi adesso.»

Leo aggrottò la fronte, ma non rispose, ancora turbato.

«E di cosa vorresti parlare?» chiesi, guardando l’uomo seduto davanti a me, dritto in volto, lui sorrise beffardo, scoccando un’occhiata al suo amico.

«Mi pare… che ancora nessuno abbia spiegato a Desdemona perché la chiamiamo contessa.»

Leo si tese, e di sottecchi giurai di averlo visto arrossire. Anche Abigail parve riscuotersi e annuì timidamente.

«Vero, è una storia molto carina.»

«Non c’è bisogno di raccontarglielo ora,» sottolineò Leo con tono affettato, e James sorrise ammiccando nella sua direzione.

«Si vergogna, perché devi sapere—»

«No!» scattò Leo tirandomi più vicino, cercando quasi di tapparmi le orecchie.

«Se deve sapere questa storia, voglio essere io a dirgliela.»

James fece un lieve cenno del capo, invitandolo a iniziare col racconto, Leo sbuffò palesemente a disagio, poi si voltò a guardarmi, serio.

«Quando arrivò la tua prima lettera, non sapevo chi fosse a scrivermi. Avevo dei dubbi, lo sai, ma nessuna certezza, quindi… non sapevo come risponderti.»

«Perché era in imbarazzo,» si intromise James ridacchiando, guadagnandosi un’occhiataccia di Leo, ma continuò indifferente. «Ci coinvolse tutti quanti per scriverti la prima risposta, fu snervante, credimi. Come costringere un bambino a fare un dettato.»

«Volevate farmi scrivere cose stupide,» replicò irritato Leo quasi urlando.

James e Abigail si stavano chiaramente divertendo molto a farlo infuriare, parlando di quell’argomento, quindi li lasciai fare. Mi auguravo che questo alleggerisse almeno un po’ l’atmosfera.

«Quindi…» chiesi guardandoli, «eravate tutti quanti voi a scrivermi e… a leggere le mie risposte?»

Abigail e James si guardarono, poi la ragazza scosse leggermente il capo, un lieve rossore che le colorava le guance.

«Beh, all’inizio sì, poi… quando le cose divennero più serie, Leo si chiuse gelosamente in se stesso. Noi morivamo dalla voglia di sapere come procedesse tra di voi e se avesse scoperto qualcosa di più sul tuo conto, ma lui si ostinava a tacere,» ammise la ragazza.

James annuì serio, prendendo la parola.

«Allora abbiamo iniziato a creare le nostre ipotesi, ovvero che tu fossi una splendida e raffinata contessa convinta di stare scrivendo a un affascinante gentiluomo, e che presto avresti scoperto la verità, inorridendo al pensiero di aver tenuto corrispondenza con un bruto simile.»

Leo sbuffò sonoramente, stringendo la presa attorno alle mie spalle.

«Non ci voleva un genio per capire che fosse splendida e raffinata,» borbottò voltando il capo verso il finestrino e sentii le guance arrossarsi terribilmente, gli altri due si scambiarono un’occhiata divertita, tornando poi a guardarmi con un sorrisino sulle labbra.

«Quindi,» riprese James, ridacchiando sotto i baffi per il palese imbarazzo di Leo, «da quel momento per noi sei stata la contessa e ci divertivamo un mondo a farlo infuriare chiamandoti così davanti a lui; col tempo è solo diventato un nomignolo affettuoso, anche se lui si imbarazza ancora quando lo sente… tipo adesso.»

Abigail sorrise e Leo grugnì sonoramente, lanciando a tutti un’occhiata truce.

«Diciamo che adesso potete anche smetterla di chiamarla così.»

I due si accigliarono, guardandosi per un istante.

«E come dovremmo chiamarla?» volle sapere Abigail.

«Signora Fortescue, magari.»

Inspirai così forte che per poco non ingoiai la lingua, voltandomi di scatto a guardarlo, Leo ghignava, continuando però a guardare ostinatamente fuori dal finestrino.

Le guance mi bruciavano terribilmente e una strana sensazione di leggerezza mi permeava l’animo. Guardai gli altri che sembravano essere stati colti alla sprovvista quasi quanto me. Poi, il maggiordomo scosse il capo dandosi per sconfitto, come a voler dire che Leo riusciva sempre ad avere l’ultima parola, si mise a guardare anch’egli il paesaggio all’esterno, un lieve sorriso che gli increspava le labbra. Abigail invece continuava a guardarmi, rossa in volto con le labbra strette, mentre si imponeva di non dover ridere, la guardai comprensiva. In quel momento, dopo tutto ciò che ci era successo, sembrava quasi irrispettoso trovare un piccolo momento di gioia da usare per allontanarsi almeno per un po’ da tutti quei pensieri cupi.

La ragazza distolse lo sguardo, posandolo sul fondo della carrozza e io sospirai, lasciandomi andare contro il fianco di Leo.

Nessuno disse altro durante il resto del tragitto, assecondammo pigramente il lento dondolare della carrozza, che presto ci avrebbe ricondotti tutti a casa.

La mia mente era ancora satura di dubbi e domande che probabilmente non avrebbero mai trovato una risposta, e sarebbe giunto il tempo in cui avrei capito di poter andare avanti anche senza. Ci sarebbe stato il tempo opportuno per le parole, per chiarire ciò che ancora andava chiarito. Un tempo, magari, per tornare a ridere liberamente senza lo spettro del senso di colpa ad aleggiare su di noi.

Mi strinsi a Leo con una mano in grembo, in quel momento volevo solo godermi il calore del suo corpo.

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