Capitolo 67
I giorni seguenti trascorsero in maniera molto confusa. Mi venne riferito che mamma era stata ritrovata da Lucas, priva di conoscenza in un fossato non molto lontano dalla casa di Andrew. A quanto pareva, correndo nel buio doveva aver messo male un piede inciampando in una radice e finendo col battere la testa, e da quel momento anche lei era costretta a letto, in condizioni critiche. Isaac invece si era già testardamente rimesso in piedi e, nonostante la spessa benda che gli fasciava metà del volto, sembrava essere tornato il solito odioso uomo di prima, intenzionato ad andarsene prima possibile da quella dimora non appena sua figlia fosse stata abbastanza in forze da non morire durante il tragitto fino a Londra.
Il
dottore disse che avevo perso una grande quantità di sangue e che avevo bisogno
di estrema calma e risposo per potermi riprendere, ma che ero tuttavia stata
molto fortunata, la lama che mi aveva trafitta non era affondata tanto in
profondità come avrebbe potuto fare ed in parte era stato proprio quello a
salvarmi.
Papà
venne a trovarmi un pomeriggio, il terzo giorno di riposo, aveva il
volto tirato e scure occhiaie sotto le palpebre, io iniziavo lentamente a
riacquistare le forze grazie agli strani medicinali e ai luculliani pasti che
Leo mi costringeva a ingerire.
«Mi
dispiace così tanto,» sputò fuori, tenendosi le mani strette in grembo, non
sapevo se fosse a causa della vista sfocata o degli strani giochi di luce, ma
mi sembrava incredibilmente più magro dell’ultima volta che l’avevo visto. «Ho
commesso così tanti errori nella mia vita… io… volevo solo proteggervi.» Si
prese il volto tra le mani, crollando su se stesso come un castello di carte
sospinto da un leggero refolo di vento.
Guardai
Leo che se ne stava silenzioso dall’altra parte della stanza, le braccia
strette dietro la schiena. Capii subito che quello, era un discorso in cui non
sarebbe intervenuto.
«Papà,»
lo chiamai, allungando debolmente il braccio sano fuori dalle coperte per
cercare di raggiungerlo. Lui sollevò gli occhi su di me, trattenendo il fiato,
aspettando che fossi io a liberarlo o a condannarlo per sempre con le mie
parole. Cercai di sorridere debolmente. «Ti voglio bene,» bisbigliai, perché
alla fine era l’unica cosa che potevo dirgli. Non potevo scagionarlo dalle
colpe del suo passato, ma potevo assicurargli che l’affetto che provavo nei
suoi confronti era ancora lì, solido e immutato come lo era sempre stato e che
non doveva preoccuparsi di perdermi, perché non sarebbe mai successo.
Papà
allungò le mani prendendo le mie dita e stringendole con forza.
«Anche
io te ne voglio,» mormorò roco, intrecciando le nostre dita.
Rimanemmo
immobili, silenziosi, c’era una tale tranquillità nella stanza che avrei potuto
sentire la polvere cadere e depositarsi a terra. Erano ancora tante le cose che
volevo chiedergli, così tante discussioni che volevo fare con lui, su mamma, su
Elisabeth, su tutto. Sicuramente assieme a lui sarei riuscita a trovare un
senso più logico a tutto quello che la mia mente ormai mescolava vorticosamente
assieme. Tuttavia, non volevo continuare a lasciar prevalere il silenzio,
volevo parlare di qualcosa, volevo strapparlo a quei pensieri oscuri in cui
sapevo si stava invischiando, ma avevo bisogno di chiedergli qualcosa di
relativamente tranquillo, non era ancora arrivato il momento per affrontare gli
argomenti più delicati; un giorno con calma, ci saremmo ritirati nel suo studio
o nel mio salotto e avremmo conversato a lungo.
«Papà,»
iniziai, umettandomi le labbra, lui sollevò di scatto gli occhi, una lieve traccia
di terrore dipinta in volto, «come sta Lucas?»
Il suo
volto parve rilassarsi impercettibilmente sentendo pronunciare il nome
dell’altro uomo. Chinò il capo annuendo piano, un piccolo sorriso ad
arricciargli gli angoli della bocca.
«Bene… è
molto preoccupato per te, ti sta intagliando un regalo.»
Sorrisi,
pensando a Lucas che magari proprio in quel momento stava chino su un piccolo
pezzo di legno.
«Siamo
stati così sciocchi, così incauti,» esclamò papà girandosi parzialmente verso
il fratello, il lieve sorriso sparito. «Per forza non riuscivamo a fare nessun
passo avanti! Come potevamo con lei qua che sapeva tutto ciò che volevamo fare,
con addirittura una spia che le raccontava quel che facevamo? L’ho sempre detto
che dovremmo porre un limite al numero di aiuti esterni che ingaggiamo.»
Leo
annuì serio, sollevando però le spalle subito dopo.
«Hai
ragione, ma senza aiuti non saremmo mai cresciuti espandendoci fino a dove
siamo arrivati oggi, né saremmo diventati così schifosamente ricchi. Gli aiuti
ci servono, dobbiamo solo sceglierli con più attenzione.»
Sbattei
le palpebre, leggermente confusa dalle parole di Leo.
«Ricchi?»
chiesi, con un filo di voce. «Ma… mamma ha detto di aver dilapidato tutti i
nostri averi.»
Papà
sospirò sollevando a sua volta le spalle, sistemandosi meglio sulla sedia.
«Beh,
lei crede di averlo fatto… non voglio tediarti con i dettagli, ma per
spiegartelo in breve, con tuo nonno abbiamo cautamente e lentamente imbastito
una storia fatta di cattivi investimenti e ingenti perdite in questo o
quell’affare. Tua madre credeva di aggravare quindi la nostra situazione
spendendo tutti i pochi soldi che avevamo, quando in realtà ogni nostro
guadagno era sapientemente nascosto, in attesa del momento giusto.»
Aggrottai
la fronte, guardando Leo e poi di nuovo mio padre che lasciò la presa sulla mia
mano per indicare con l’indice le pareti della stanza in cui ci trovavamo.
«Ogni
casa Fortescue ha passaggi e camere segrete, questa, quella di Londra. E tuo
nonno ha ammassato per anni tutti i nostri averi e… i guadagni fruttati dai
nostri lavori tra le stanze nascoste della nostra casa di Londra.»
Sbattei
le palpebre rapidamente, sbigottita.
«Per
questo è voluto rimanere lì finché non è morto, e nel testamento ha lasciato a
entrambi una casa.»
Papà
annuì, tornando a stringermi la mano.
«Tra
quelle mura c’è un tesoro di discrete dimensioni, non poteva certo lasciarlo
incustodito. E sì, questa casa è stata lasciata a Leo perché più vicina al mare,
visto che è lui tra i due quello che ha affari anche oltre oceano, era sensato
facilitargli gli spostamenti, così come quella di Londra è stata lasciata a me
perché sono io quello che ha più bisogno di avere accesso agli informatori e ai
documenti che solo in città si possono trovare.»
Sbattei
le palpebre, meravigliata, guardandoli a turno.
«Avete
pensato proprio a tutto,» mormorai, meravigliata. «Non posso credere che siamo
ricchi.»
«Non
esattamente,» grugnì Leo, entrando per la prima volta nel discorso. «Se tua
madre crepa o se ne va e quel contratto finalmente viene stracciato… sì, siete
ricchi. Altrimenti dovrete continuare a fingere di vivere sulla soglia della
povertà, finché quella non uscirà
definitivamente dalle nostre vite.»
Annuii
flebilmente, aggiungendo quell’ennesimo dettaglio al tassello di cose che avrei
dovuto elaborare con calma una volta che mi fossi ripresa.
Mi
chiesi se sarei mai stata in grado di metabolizzare tutto ciò che mi era
successo o se, ad un certo punto, sarei semplicemente crollata su me stessa.
Il
silenzio tornò a cadere su di noi, strinsi le dita attorno al palmo di mio
padre, cercando di comunicargli solidarietà e amore. Lui ricambiò e rimanemmo
così, l’oscurità nelle nostre menti ancora troppo fitta per poterla debellare.
Quella
notte, venni colta da una strana febbre che mi condusse alla deriva tra sogni e
incubi, tra ricordi di un passato tormentato e fantasie di un futuro oscuro.
Sognai Julie che mi sorrideva felice, mi acconciava i capelli davanti alla
toletta della mia stanza, eravamo serene. Quando però sollevavo gli occhi per
incontrare i suoi attraverso il riflesso dello specchio, vedevo quell’orrendo
squarcio rosso aprirsi sotto la sua gola, sentivo il sangue schizzarmi addosso,
macchiarmi inevitabilmente, urlavo cercando di scappare, ma Julie continuava a
tenermi ferma con le sue piccole mani, ancora concentrata ad agghindarmi i
capelli e io urlavo sotto quella cascata rossa, un urlo muto, che nessuno
sarebbe mai stato in grado di udire.
Poi
tutto spariva ed entrava in scena mia madre, così bella, così elegante come
l’avevo sempre vista attraverso i miei occhi da bambina adorante. Sorrideva,
come mai prima di allora le avevo visto fare. Sembrava… serena, veramente
felice. Non l’avevo mai vista così allegra in vita mia. Poi tutto attorno a noi
diventava nero, ombre di un cupo rosso si allungavano verso di lei,
ghermendola, inghiottendola senza lasciarle il tempo nemmeno di realizzare cosa
stesse succedendo. Rimanevo dunque sola, in quell’oscurità pregna di presenze che
mi fissavano mute, correvo spaventata, cercando una via di fuga da quel posto.
I miei piedi nudi calpestavano vetri invisibili che mi ferivano affondando
nella carne, ma nonostante ciò continuavo ad avanzare, sempre più
faticosamente. C’era una porta davanti a me, lì, piantata nel bel mezzo del
niente. Una porta che ricordavo bene ma che nei miei incubi non mi era
familiare, la spalancavo ormai a corto di fiato e, al di là di quel pesante
battente di legno, mi ritrovavo catapultata nella mia vecchia biblioteca in
fiamme. Al centro della stanza, Elisabeth, con indosso un elegante abito da
sera, danzava tranquilla tenendo stretta tra le braccia una donna che mi dava
le spalle.
Danzavano
tra le fiamme, schivando agilmente le macerie e i libri che andavano a fuoco.
Elisabeth con un dolce sorriso sereno dipinto in volto, guidava con maestria
l’altra donna per tutta la stanza, al ritmo di una melodia che solo loro
udivano.
Mi
avvicinavo alle due donne, ma, quando giungevo quasi a un soffio dai loro
corpi, quando finalmente avrei potuto scorgere il volto della ragazza tra le
braccia di Elisabeth, ecco che quella si irrigidiva per un breve istante,
scatenando il panico nel volto prima rilassato della donna, dopodiché, il suo
corpo si afflosciava privo di vita tra le braccia della duchessa, ogni sua
fattezza svaniva, lasciando al suo posto quella che sembrava solo una bambola
vuota. Elisabeth mi guardava disperata, le braccia strette ancora attorno al
molle corpo della ragazza.
«Perché?»
Mi
svegliai di soprassalto, tremante e madida di sudore, Leo era già lì, pronto a
tamponarmi con pezze fresche, a mormorarmi all’orecchio parole rassicuranti.
«È colpa
mia!» esclamai, mentre lui mi passava delicatamente una pezza fresca sulle
braccia, per togliermi di dosso il sudore.
«Cos’è
colpa tua?» volle sapere lui, intingendo il panno nella bacinella accanto al
letto. Scossi la testa sentendo la pelle ricucita alla base del collo tirare
leggermente, non avevo voglia di raccontargli ancora una volta quello che era
successo quella notte, non avevo voglia di spiegargli perché mi sentissi così
male per ciò che era successo, eppure sapevo in quel momento, più che mai, di
dovergli obbedire, che quando mi chiedeva qualcosa che non volevo fare, era
proprio quello il momento in cui dovevo mostrargli maggiore obbedienza.
«Tutto!»
quasi urlai, con un groppo alla gola guardando la stanza buia e sfocata,
cercando di calmare la mia mente terrorizzata che mi faceva vedere pericoli in
agguato anche nelle ombre più innocue.
«Desdemona.»
Il tono duro del mio Signore mi riportò concentrata su di lui, guardai la sua
mascella contratta e il suo profilo rigido, seduto sul bordo del letto mentre
stringeva tra le mani la stoffa per eliminare l’acqua in eccesso.
«Quali
colpe pensi di avere?» tornò a chiedermi e io sospirai, chiudendo per un
istante le palpebre cercando di riordinare le idee.
«Julie è
morta,» mormorai con un filo di voce. «Ho ucciso una persona.»
Sentii
il rumore della pezza che veniva lasciata cadere nell’acqua e riaprii gli
occhi, Leo si stava asciugando le mani sul lenzuolo.
«Dunque,
chiariamo alcune cose,» cominciò con serietà, girando attorno al letto per
potersi sdraiare al mio fianco e prendermi tra le braccia senza gravarmi sulla
spalla ferita.
«Prima
di tutto, Julie è morta a causa della sua stupidità.»
Sussultai,
sconvolta e offesa di sentirlo parlare in quel modo di una ragazza che aveva
praticamente votato la sua vita a lui e alla sua causa.
«Non
guardarmi così,» mi rimproverò bonariamente lui, sistemandosi meglio sui
cuscini ammassati dietro di noi e trascinandomi sul suo petto. «Ha sempre avuto
le mani svelte, ma la mente lenta. Se davvero si è lasciata abbindolare dalle
parole di Elisabeth dopo tutti gli anni che abbiamo passato assieme a coprirci
le spalle a vicenda… mi dispiace, ma confermo ciò che ho detto prima. È morta
perché è stata stupida. Non si è eroicamente immolata per amore di Abigail, non
ha coraggiosamente scelto di mantenere il segreto perché eravamo tutti in reale
pericolo. No, nella sua mente ha deciso di fidarsi delle infide parole di una
traditrice, piuttosto che di noi.» La sua voce grondava astio e risentimento,
la scoperta del tradimento di Julie era stata un duro colpo per tutti, perché
nessuno si aspettava che ci fosse davvero un traditore tra di loro, proprio
loro che basavano tutto sulla fiducia e sull’aiuto reciproco, e avevano
abbandonato tutto e tutti per ricostruirsi una vita in Inghilterra, come una
famiglia; per scoprire poi, nel peggiore dei modi, che proprio tra di loro
c’era stato chi aveva, seppur a malincuore, cospirato alle loro spalle. Se per
me la morte di Julie sembrava un mattone sullo stomaco, per loro era
l’equivalente di un’intera valanga crollata giù a tutta velocità per investirli
in pieno. Non avevo la minima idea di cosa stessero provando, soprattutto
Abigail.
«E poi,
sì,» riprese Leo pensieroso, «hai ucciso una persona, posso dirti per
esperienza che le sensazioni che hai provato in quel momento, non le
dimenticherai mai.» Lui sollevò una mano, studiandola con estrema attenzione.
«Ho perso il conto di quante persone ho ucciso, eppure, ricordo ancora con
estrema chiarezza ogni singolo istante della mia prima vittima. Ricordo l’odore
ferroso del sangue che c’era nell’aria, la sensazione del corpo che diventava
sempre più inerme e pallido. Sento ancora le mani macchiate del suo sangue.»
Rise, scuotendo piano il capo. «La cosa strana è che non ricordo chi fosse, né
perché l’abbia ucciso, ricordo solo i suoi occhi terrorizzati mentre si rendeva
conto che non c’era più niente da fare, che la lotta era finita e che sarei
stato io a uscirne vincitore, gli occhi di un uomo che guarda in faccia la
morte, quelli, credo non si possano dimenticare mai.»
Nemmeno
io avrei mai dimenticato il volto di Elisabeth, mi avrebbe perseguitata per
sempre, nei miei incubi.
«Però,»
continuò Leo sollevandomi il viso per far incontrare i nostri sguardi, «sono
tremendamente orgoglioso di te, piccola. Sei stata così coraggiosa… hai
affrontato la situazione a testa alta e ne sei uscita vittoriosa.» I suoi occhi
si fecero cupi e liquidi, aggrottò la fronte accarezzandomi piano lo zigomo.
«Io non c’ero,» mormorò con rammarico, studiando con attenzione ogni dettaglio
del mio volto. «Tu potevi morire e io non ero lì a proteggerti.»
Una
grossa lacrima gli rotolò giù dalla guancia e io mi affrettai a sollevare la
mano bendata per asciugarla.
«Tu
c’eri invece,» risposi con voce roca a causa dell’emozione, sollevai lentamente
il collo per mostrargli il collarino che ancora stava saldamente allacciato
attorno alla mia gola. «Sei sempre stato con me, tutto il tempo,» mormorai
carezzandogli la scia salata della lacrima, ripercorrendola lentamente fino ad
arrivare alla sua palpebra. «Senza questo attorno al collo non avrei mai
trovato il coraggio di agire. Senza di te, senza tutti i bei ricordi dei nostri
momenti assieme, non mi sarei mai arrabbiata con Elisabeth, né le avrei tirato
un pugno.»
Sorrise,
prendendo delicatamente tra le dita il mio palmo fasciato e portandoselo alle
labbra per baciarlo dolcemente.
«La mia
piccola guerriera,» sussurrò, il petto e la voce gonfi di orgoglio, arrossii
lasciando che mi deponesse baci lievi su tutta la fasciatura della mano.
«Ti
insegnerò come si tira un pugno,» annunciò alla fine, continuando a baciare
delicatamente le dita della mia mano. «Lezione numero uno, il pollice non va
mai tenuto sotto le altre dita, sennò ecco
cosa succede.»
Sollevai
gli occhi verso il soffitto, scuotendo piano il capo.
«Beh,
grazie mille, saperlo adesso mi è sicuramente molto utile.»
Lui
ridacchiò sollevando piano le spalle.
«Non so,
magari più avanti vorrai tirare un pugno a James o a tuo padre, allora saprai
come fare.»
Sorrisi,
sorniona guardandolo con un sopracciglio sollevato.
«A te
no?»
Sul suo
volto si dipinse un’espressione saccente e sentii il suo petto gonfiarsi
leggermente.
«Piccola,
sono troppo bravo, non riusciresti mai nemmeno a sfiorarmi.»
Risi
allungando cautamente il collo per evitare strappi inutili alla ferita,
puntando alle sue labbra, i suoi occhi divennero improvvisamente più scuri,
schiuse la bocca, pronto a ricevere quel bacio inaspettato, ma quando fui
abbastanza vicina, mi spostai rapida, assestandogli un leggero morso sulla
guancia.
«Preso!»
esclamai, guardandolo con espressione vittoriosa. Lui mi osservò stupito e
divertito per alcuni istanti, poi scosse la testa, ridacchiando piano.
«Questa
me la paghi, piccola monella.» E si gettò su di me, sempre attento a non farmi
male e che rimanessi perfettamente coperta per non prendere freddo. Perché Leo
si sarebbe sempre preso cura di me. Per sempre.
La
febbre passò poco tempo dopo, ma l’incubo mi avrebbe perseguitata per molte
notti ancora. Per quanto provassi ad accettare il fatto che non tutto doveva
essere per forza colpa mia, dentro di me sentivo sempre quella voce che mi
sussurrava che forse, se fossi stata meno assorta dai miei problemi, se mi fossi
aperta di più con Julie, se l’avessi spinta a parlare con me fin da subito,
invece di lasciarla macerare nei suoi silenzi, magari avrebbe cambiato idea,
magari avrebbe trovato il coraggio di confessare ciò che sapeva, salvando delle
vite innocenti. Sapevo che il senso di colpa per tutto quello che era successo
non mi avrebbe mai abbandonata, che sarebbe sempre stato lì, a farmi sentire
ancora più sporca di quanto già non mi sentissi di mio, ma andava bene così.
Avevo Leo e nei suoi occhi vedevo riflesse le stesse paure, gli stessi dubbi
che attanagliavano la mia mente. Non avremmo mai dimenticato né ci saremmo mai
potuti perdonare ma, insieme, saremmo riusciti ad andare avanti, amandoci e
supportandoci l’un l’altra.
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