Capitolo 66

Uscii dalla stanza muovendomi inconsapevolmente, come all’interno di un sogno, no, era un terribile incubo dal quale speravo di svegliarmi al più presto solo per scoprire di essere al sicuro, placidamente stretta nell’abbraccio di Leo. Il dolore e la spossatezza che sentivo in tutto il corpo però, mi comunicavano che gli avvenimenti degli ultimi minuti erano stati tutti reali, che due persone erano morte nella mia stanza, che ero un’assassina.

Arrivai a tentoni alla balaustra che mi avrebbe condotto al piano di sotto ma, quando misi il piede sul primo gradino, le mie gambe già molto deboli cedettero e presi a ruzzolare giù per la scalinata, strinsi i denti mentre cadevo, troppo concentrata a contenere i danni o provare ad arrestare la caduta, anziché spalancare la bocca e urlare.

Quando riuscii a bloccarmi ero quasi alla fine della scalinata, gli occhiali persi chissà dove, sentivo male ovunque e, ancora, nessuno sembrava essersi accorto di niente. Gli occhi si riempirono di lacrime, avevo bisogno di trovare qualcuno, chiunque, che potesse aiutarmi, che potesse dirmi dove fosse finito Leo.

Leo.

Ricacciai indietro le lacrime. Dovevo trovarlo.

In quel momento, il portone principale si aprì e il mio cuore sussultò speranzoso. Strizzai gli occhi per cercare di capire chi stesse entrando, ma il bagliore del lume che lo sconosciuto teneva in mano e la lontananza lo rendevano quasi indistinguibile.

«Dio mio,» esclamò quello che riconobbi come uno dei gemelli, avvicinandosi di tutta fretta a me, «cosa diamine vi è successo?»

Sollevò il lume che aveva tra le mani per studiare meglio i segni che avevo sul corpo e la ferita alla spalla. Mi strinsi le braccia tremanti al petto, socchiudendo gli occhi per il fastidio che quella luce mi stava causando dopo aver passato tanto tempo nell’oscurità.

«Elisabeth…» cercai di spiegargli ma, mi resi conto che non mi era possibile, l’orrore a cui avevo assistito quella notte era penetrato così a fondo nel mio animo che non riuscivo a staccarmene nemmeno tramite le parole. «Camera mia,» balbettai mentre l’uomo appoggiava il lume per terra per togliersi il mantello che indossava e mettermelo sulle spalle. «Coltello.»

Lo sentii bloccarsi sopra di me, gli lanciai un’occhiata titubante.

«È stata lei a farvi questo?» chiese quello che, senza il fascio intenso di luce a coprirgli il volto, riuscivo a riconoscere come Jeremy.

Annuii, scostando subito gli occhi, sperando che non riuscisse a scorgere altro se non la risposta che desiderava, lo sentii imprecare sonoramente.

«Ce la fate ad alzarvi?»

Senza nemmeno guardarlo scossi la testa, non credevo di essere in grado di muovermi da lì nemmeno se ne fosse dipesa la mia stessa vita, a quel punto si chinò su di me e, senza tante cerimonie, mi prese tra le braccia.

«Non posso certo lasciarvi qui in queste condizioni,» dichiarò serio chinandosi poi per riprendere il lume. Bisbigliai parole di gratitudine e mi strinsi contro il suo petto, cercando di riscaldarmi grazie al suo mantello e al calore emanato dal suo corpo.

Jeremy si diresse verso il portone rimasto socchiuso e l’aprì con un calcio, sporgendo la testa fuori.

«Martin!» urlò al fratello, che evidentemente doveva essere nei dintorni, mi sporsi da sotto la stoffa in cui mi ero rintanata per osservare e, infatti, a quel richiamo dopo qualche istante vidi comparire dal sottobosco una piccola macchia sfocata di luce.

«Cosa?» l’urlo di risposta arrivò flebile, ma chiaramente percepibile.

«Trova uno dei Fortescue o Stevenson, digli che la principessa è stata ferita, la porto in camera!»

Martin non rispose, ma la luce rapida com’era comparsa sparì nel bosco. Rientrammo, e Jeremy in pochi passi arrivò alle scale.

«Principessa?» domandai con un filo di voce, cercando con ogni fibra del mio corpo di rimanere sveglia, non volevo addormentarmi.

«Sì. Perché non lo siete?» chiese beffardamente lui, salendo a grandi passi la prima rampa di scale e fermandosi in mezzo al corridoio, lanciò una lunga occhiata verso la porta della mia stanza ancora spalancata e illuminata. Non mi voltai a guardare, ma ipotizzai che stesse guardando le gambe di Julie e forse, la pozza di sangue che nel frattempo si era espansa.

Rabbrividii.

«No, non lo sono,» dissentii con rammarico poco dopo, tirandomi di nuovo il mantello sul capo per evitare che il mio sguardo finisse anche solo casualmente su quella scena.

L’uomo non commentò ma riprese a camminare.

«Dove sono tutti?» domandai, cercando di cancellare dalla mia mente almeno per un breve istante l’immagine della gola di Julie che veniva recisa; del pugnale che affondava nelle carni di Elisabeth.

«Dunque…» iniziò Jeremy pensieroso, arrivando al secondo piano e iniziando a percorrere il corridoio, evidentemente con una meta ben precisa in mente, «la baronessa de Ros dopo cena è voluta andar via, comprensibilmente. Gran parte di noi è fuori a cercare quella sciagurata di vostra madre, a parte il dottore ovviamente.»

Fermatosi davanti alla porta che gli interessava, bussò con la punta dello stivale e, pochi istanti dopo, Timothy Russell venne ad aprire la porta.

«Qui c’è un ferito che riposa!» esclamò sconvolto da tanta maleducazione, poi guardò me, che avevo sporto cautamente il capo da sotto il mantello per poterlo guardare.

«Qua invece c’è una ferita che ha bisogno del suo aiuto, e subito,» sentenziò lapidario Jeremy, il dottore sussultò e annuì chiedendoci un istante per potersi accertare delle condizioni di Thornberry e poter prendere le sue cose. Uscì con la sua borsa tra le mani, chiedendoci da che parte dirigerci.

«Terzo piano,» esclamai, voltando il capo per guardare Jeremy in faccia, lui sollevò un sopracciglio arricciando l’angolo della bocca, sicuramente in una situazione differente avrebbe fatto uno dei suoi soliti commenti, tuttavia si limitò a chinare leggermente il capo.

«E terzo piano sia.»

Ci muovemmo in fretta, guidati dalla luce di Jeremy che camminava a lunghe falcate, il dottore trotterellava svelto poco dietro di noi, cercando di tenere il passo e sbuffando leggermente per la velocità sostenuta con cui stavamo procedendo.

Arrivammo in cima alle scale e Timothy si affrettò ad aprirci la porta così che Jeremy e io potessimo passare. La stanza era buia, rischiarata solo dalla luce della luna all’esterno e dal lume tra le mani dell’uomo, tuttavia, quando vidi di nuovo quell’ambiente familiare, tirai un sospiro di sollievo.

«Mettetela sul letto,» ordinò il dottore, mentre già si apprestava ad accendere le candele disseminate per tutta la stanza. Jeremy grugnì scuotendo il capo.

«Grazie, doc, da solo non ci avrei mai pensato.»

Mi lasciai scappare una lieve risata, che si tramutò in un ansito di dolore quando lui mi appoggiò tra le candide lenzuola. Subito, il dottore arrivò vicino a me e rimosse il mantello con cui mi ero coperta fino a quel momento.

«Buon cielo!» esclamò, esaminandomi con attenzione, soffermandosi sulla ferita sanguinolenta alla spalla, il dito gonfio e tutte le contusioni che mi ero procurata cadendo dalle scale.

«Cosa vi è successo?» domandò mentre rapido iniziava a frugare nella sua borsa in cerca degli strumenti che gli sarebbero serviti.

Lo stomaco si attorcigliò su se stesso, scostai lo sguardo dal dottore spostandolo su Jeremy, che mi fissava silenzioso a braccia conserte, appoggiato alla colonna del baldacchino.

«Sono caduta dalle scale,» riuscii a rispondere alla fine, la voce incrinata, sul punto di spezzarsi, il dottore aggrottò le sopracciglia sistemandosi gli occhiali.

«Perdonatemi ma una caduta non provoca—»

«Ha detto,» iniziò Jeremy con tono basso e minaccioso, staccandosi dalla colonna e avvicinandosi al medico, «che è caduta dalle scale, chiaro

L’uomo balbettò qualcosa di incomprensibile continuando a sistemarsi gli occhiali sopra il naso, poi si inchinò profusamente prima verso Jeremy, poi verso di me, scusandosi per la sua mancanza di rispetto, e prese a lavorare velocemente, in silenzio.

Mi dispiacque molto per quel povero dottore ma, in quel momento, non avevo proprio voglia di raccontare a nessuno ciò che era successo e, sicuramente, era un bene che non sapesse che c’erano due cadaveri al piano di sotto. Lanciai un’occhiata grata a Jeremy che nel frattempo era tornato ad appoggiarsi alla colonna, lui per tutta risposta mi fece un mezzo sorriso e l’occhiolino.

Guardai il medico lavorare rapido e preciso, si fece avvicinare il catino di Leo così da poterci intingere un pezzo di stoffa e lavarmi la pelle sporca dove il sangue si era seccato.

«Bisognerebbe toglierle il vestito,» borbottò il medico mentre mi puliva accuratamente la ferita per poterla esaminare meglio.

«Dovrei vedere se ha altri traumi o ferite su altre parti del corpo, ma questa per ora è senza dubbio la più urgente.»

Annuii concordando con lui, a parte quella ferita e il dito che continuava a pulsarmi fastidiosamente, non mi sembrava di sentire nessun altro dolore particolarmente grave, avevo solo un gran freddo.

«Come sta il signor Thornberry?» chiesi con un filo di voce, cercando di non guardare l’ago uncinato che aveva tirato fuori dalla borsa, deglutii e, come al solito, quel piccolo pezzo di metallo contro la mia pelle mi conferì una flebile sensazione di sicurezza, l’eco lontano di ciò che provavo stando tra le braccia di Leo.

«È stato colpito con estrema violenza,» spiegò l’uomo mentre infilava un lungo filo nella cruna dell’ago, io iniziai a sudare freddo e lanciai un’occhiata preoccupata a Jeremy.

«Vado a vedere se quell’idiota di Fortescue è riuscito a portare il culo fuori dal bosco.»

Il dottore sussultò così forte che per poco gli occhiali non gli caddero dal naso.

«Signore! Le sembra il modo di parlare di fronte a una signorina?»

Jeremy sorrise, scostandosi dal baldacchino e tornando ad ammiccare con un sorriso sornione.

«A lei non dispiace.»

Nonostante la paura di affrontare quell’ennesimo supplizio, mi sfuggì un’altra risata, mentre Jeremy usciva rapido dalla stanza, lasciandomi sola col medico.

«Stavate dicendo?» chiesi, cercando di ritardare l’inevitabile momento in cui quella punta fosse calata sulla mia carne lacerata per ricucirla assieme.

«Sì,» riprese il medico continuando a preparare l’occorrente per l’intervento. «Il signore è stato colpito molto forte e, da quello che mi è stato detto – e da quello che ho potuto constatare io stesso – il candelabro con cui è stato ferito aveva dei decori molto arzigogolati. Quindi oltre al trauma del colpo, c’erano anche ferite causate da quei decori che si sono agganciati alla carne, strappandone una parte.»

Sussultai sconvolta, la fronte aggrottata dal raccapriccio, immaginandomi quella scena che, invero, avevo visto svolgersi davanti ai miei occhi. Cos’aveva sentito mia madre? Cosa aveva provato quando la carne del suo stesso padre veniva strappata via? Era stato tanto atroce come sentirsi le mani sporche del sangue di un’altra persona? Sentire la lama tra le tue mani affondare nella carne, sospinta solo e soltanto dalla tua volontà?

L’uomo si bloccò un istante, una garza imbevuta di un liquido marrone e dallo strano odore in mano.

«Perdonatemi,» esclamò contrito, abbassando il capo, «non avrei dovuto raccontarvi dettagli così cruenti.»

Cercai di comunicargli che non importava, anzi, per quanto fossero orribili volevo che mi venissero detti, volevo sapere, ma in quel momento tutti i miei sensi scattarono all’erta.

Le mie orecchie infatti, avevano percepito dei passi rapidi e pesanti salire le scale, passi che conoscevo tanto bene quanto i miei. Voltai il capo verso la porta proprio nello stesso momento in cui Leo la spalancava, irrompendo nella stanza. Aveva le guance arrossate e il fiatone, indossava ancora il cappotto con cui doveva essere uscito per cercare mia madre e gli spessi guanti neri. Quando i nostri occhi si incontrarono notai che aveva le pupille dilatate, gli occhi completamente sgranati. Era terrorizzato.

E poi, semplicemente, successe.

Tutto quello che era accaduto negli ultimi tempi, tutte le cose che avevo scoperto, tutte le sofferenze tronarono ad abbattersi su di me, e scoppiai in un pianto disperato.

Con le ultime forze che mi rimanevano sollevai le braccia in direzione del mio Signore, bisognosa di sentirmi al sicuro tra le sue braccia.

«Leo!» lo chiamai, lo implorai di raggiungermi e lui scattò.

In un istante era sul letto, che mi afferrava il volto baciandomi con un trasporto senza paragoni.

«Sono qui, bimba, sono qui,» mi rassicurò lui, depositando baci sul mio volto, venerandolo. Mi mossi verso di lui, piangendo e singhiozzando a bocca aperta mentre lui mi prendeva cautamente la mano destra, stringendola senza nuocermi al pollice.

«Andrà tutto bene, ci sono qui io ora,» ripeté continuando a coccolarmi, carezzandomi i capelli mentre io urlavo, disperata, aggrappandomi alle coperte e alle sue dita. Intanto il medico lavorava silenzioso sulla mia ferita, aggiungendo dolore fisico a quello che già provava la mia anima. Piansi per tutto il tempo della medicazione, piansi gemendo a gran voce e buttando fuori tutta la disperazione tutta la frustrazione che mi erano rimaste incastrate nel petto fino a quel momento.

Pensai a mia madre che mi aveva sempre odiata e maltrattata; a mio padre costretto a vivere la sua vita e ad agire in base a un contratto che lo aveva costretto a compiere atti ignobili per tenere la sua famiglia al sicuro; a Julie così ingenua e spaventata da credere a una donna che l’aveva solo usata, tradendo coloro che invece avrebbero potuto aiutarla. Piansi lacerata dall’angoscia, rivedendo davanti ai miei occhi il suo volto spaventato e sofferente mentre moriva.

Infine, pensai a Elisabeth, a tutti quegli sguardi che in passato le avevo sempre visto rivolgermi senza mai capirli a pieno, non ero mai riuscita a comprenderla perché, forse, nemmeno lei era mai riuscita a definire con chiarezza chi davvero fosse. Troppo confusa, troppo malata, troppo disperata. Dentro di lei c’era sempre stato qualcosa di così contorto e degenerato, qualcosa che era stato creato e alimentato dalla crudeltà a cui era stata sottoposta e che forse, col passare del tempo, nemmeno lei era più riuscita a controllare. Forse era stato proprio quello il motivo di quell’ultimo finto attacco, per quello aveva lasciato che la uccidessi. Per fermare quella bestia e impedire che uccidesse un’altra vittima innocente, come la sua Beatrice.

O forse, ero solo io che cercavo nella disperazione più totale, di scorgere del buono, un barlume di redenzione anche nei mostri più crudeli.

La verità, però, sarebbe rimasta per sempre un mistero.


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