Capitolo 56
Rimasi
abbracciata a Leo finché non riuscii a calmare le lacrime e i singhiozzi
causati dal mio pianto.
«Perdonami,»
sussurrò lui tra i miei capelli, «non credo proprio di avere un fazzoletto.»
Mi
sfuggì una flebile risata.
«Ti
porti dietro un coltellaccio nello stivale, ma non un fazzoletto?»
«Ognuno
ha le sue priorità, suppongo.»
Scossi
la testa, incapace di smettere di sorridere e mi passai velocemente una mano
sotto gli occhi per cercare di asciugarli.
«Oggi
è arrivato il signor Thornberry,» lo informai, anche se ero quasi certa lo
sapesse già. Lui grugnì distendendo le gambe sul pavimento.
«Perché
l’hai fatto venire qui?» volli sapere sollevando lo sguardo per incontrare il
suo. «È orribile.»
Leo
sospirò, le labbra increspate in un sorriso vago.
«Lo
so, ma le cose non possono continuare così, avevo bisogno di parlargli faccia a
faccia.»
Tirai
su col naso e distesi anche io le gambe accanto alle sue, tornando ad
appoggiare il capo sul suo petto, il sole del pomeriggio batteva forte creando
un cono di luce sul pavimento, riscaldandoci.
«Parlargli
di mamma?» mi azzardai a chiedere e lui grugnì di nuovo. La sua mano scese a
massaggiarmi dolcemente il collo.
«Tra
le altre cose,» rispose, e sospirai sollevata. Era così bello sapere che potevo
affidarmi totalmente a Leo, che avrebbe pensato a tutto, che si sarebbe preso
cura di me.
«Oggi
ho parlato con papà, abbiamo… discusso di questo assassino.»
«Oh?»
esclamò con tono decisamente sorpreso, io annuii vigorosamente contro il suo
petto, sollevando una mano per poter percorrere con le dita i ricami sul suo
panciotto.
«Sì,
è stato bello parlare con lui a quel modo, mi sono sentita… utile.» Sollevai il
capo accigliata, una domanda improvvisa che mi era appena passata per la testa.
«Come riuscivate a lavorare stando in due Paesi diversi?» sbattei le palpebre,
provando a ragionare ad alta voce. «Insomma, tu eri in America, lui qui in
Inghilterra, come potevate fare… beh, quello che state facendo adesso? Non credo
che papà potesse aiutarvi molto con dei casi che si svolgevano oltreoceano, né
voi potevate fare nulla se c’era da trovare qualcuno qui…»
Leo
non rispose subito, le sue dita continuarono a massaggiarmi teneramente la
pelle del collo e il suo occhio sano osservava attentamente il pulviscolo che
danzava tranquillo nel fascio di luce.
«Quando
me ne sono andato di casa…» mi sistemai meglio su di lui, spostando una gamba
sopra le sue per potergli stare più vicino, «ero molto piccolo… avrò avuto…
tredici anni.» La pupilla tremò leggermente, spostandosi sul mio volto. «Tu eri
appena nata, non avevi neppure un nome ancora, eri una cosina minuscola.»
Sorrise, ricordando quei momenti del passato. «Quando io e papà venimmo in
città per vederti, ricordo che pensai che eri così piccola che avrei potuto
nasconderti nel taschino della mia giacca e portarti via,» rivelò divertito
passandomi una mano sotto al mento. «Diciamo che mi dai ancora
quell’impressione, anche se per motivi totalmente diversi.»
Scossi
la testa, lieta e un po’ imbarazzata di sentirgli raccontare una parte del
nostro passato che non sarei mai stata capace di ricordare.
«A
ogni modo,» riprese, con tono decisamente più serio, «quegli anni per me non
furono un bel periodo… nostra madre era appena morta e… semplicemente, non
riuscivo a farmene una ragione.»
Mi
spostai per sistemarmi meglio sulle sue gambe, così mi ritrovai quasi seduta
sul suo grembo, circondata dal calore delle sue braccia.
«Ti
sarebbe piaciuta,» dichiarò con un sorriso triste e remoto. «Amava il
pianoforte e cantava divinamente, forse perché quello era l’unico modo che
aveva per esprimere i suoi sentimenti.»
Schiusi
la bocca e sgranai leggermente gli occhi, sorpresa.
«Quindi
anche lei…?»
Leo
annuì inclinando leggermente la testa.
«Da
qualcuno dovevate pur aver ripreso tu e tuo padre, no?»
In
effetti, non aveva tutti i torti.
«Anche
se lei era… molto più criptica di voi due,» continuò sollevando gli occhi verso
il soffitto. «Almeno tuo padre quando è molto emozionato lo si nota, e tu…» ghignò
perfidamente tornando a guardarmi, «tu hai un volto così espressivo e nemmeno
te ne rendi conto.»
Già
in passato aveva detto una cosa simile, il mio cuore sussultò, mi toccai il
volto, sorpresa da quella sua confessione.
«Non
può essere…» sussurrai incredula, ma lui annuì sollevando un dito per
poggiarmelo in mezzo alla fronte.
«Quando
ti arrabbi o sei triste,» spiegò tracciando piano una linea orizzontale col
polpastrello ruvido in mezzo ai miei occhi, «proprio qui si formano due lievi
increspature, quasi impercettibili se non si sa dove guardare.» Il dito si
spostò, tracciando piano il contorno del mio naso per spostarsi poi sulle mie
labbra. «Quando sei divertita,» continuò carezzandomi delicatamente il contorno
delle labbra, «l’angolo sinistro della tua bocca si solleva un po’.»
Sentivo
che ero sul punto di rimettermi a piangere davanti a quella sua ennesima
dimostrazione d’amore.
«Quando
sei felice,» mi sorrise avvicinandosi per deporre un piccolo bacio sulla punta
del mio naso, «i tuoi occhi brillano come gemme preziose.»
Mi
gettai addosso a lui, arrampicandomi ancora di più sul suo grembo, così che
ogni più piccola parte del mio corpo fosse a contatto con la sua.
«Allora,
adesso devono essere particolarmente brillanti,» mormorai stringendomi a lui,
totalmente avvolta nella sensazione di fluttuare nell’aria.
«Molto,»
confermò lui stringendomi, affondando il volto nella mia spalla.
Sapevo
che la sua storia non era finita, che c’era ancora molto che voleva
raccontarmi, che voleva spiegarmi, ma in quel momento avvertivo solo il bisogno
di stare tra le sue braccia, cullata dal suo calore e dal suo inebriante
profumo.
«Mi
piace guardarti,» bisbigliò a contatto con la pelle della mia spalla. «Mi piace
scoprire nuovi modi per interpretare il tuo volto, mi piace sapere che sono
l’unico a riuscirci, sono l’unico in grado di capirti sul serio.»
Le
sue parole mi provocarono un lungo brivido che, dalla sommità del capo,
percorse tutto il mio corpo fino alla punta delle dita dei piedi. Mi strinsi
ancora di più a lui, inspirando a pieni polmoni quel suo profumo di terra e
alberi, misto a qualcosa che era solo suo.
«Anche
papà ci riusciva con mamma…» voltò leggermente il capo, appoggiando la guancia
ancora coperta dalle bende sulla mia spalla, così da poter raggiungere il mio
collo con le labbra. Sorrisi sentendo i peli della sua barba solleticarmi la
carne sensibile della gola. «Nonostante lui abbia sempre sostenuto il
contrario, sapevo che sotto sotto capiva perfettamente quel che le passava per
la testa, ma suppongo fosse… un loro segreto, in un certo senso.» Rise e la
vibrazione riverberò dalla sua gola fin dentro il mio corpo. «Adoravo sentirla
suonare il piano e cantare, potevo starmene ore seduto tranquillamente per
terra accanto a lei semplicemente ad ascoltarla, era…» le parole gli morirono
in gola, d’istinto, lo strinsi ancora più saldamente tra le mie braccia. «Morì
a causa di una stupida malattia, stavamo tornando a casa dopo essere stati a
una festa di paese qui vicino, visto che non era molto lontana, i miei genitori
decisero di raggiungerla a piedi…» rimase in silenzio per molti secondi, gli
unici rumori nella stanza erano il battito del suo cuore e il cinguettio degli
uccellini fuori. «Sulla strada del ritorno prese a piovere… era un tipico
acquazzone estivo, durò solo qualche minuto ma bastò per farci bagnare tutti.
Lì per lì fu molto divertente e tornammo a casa sereni, zuppi fin dentro le
ossa.»
Voltai
leggermente il capo per cercare un contatto visivo, ma Leo continuava a tenere
il volto premuto contro la mia gola, stringendomi spasmodicamente a sé.
«Io
e lei ci ammalammo gravemente… e lei fu così ostinata, così incurante per la
propria salute, nonostante ciò che le dicevano i dottori e mio padre, ogni
volta che poteva veniva in camera mia per controllare come stessi.»
Gli
carezzai delicatamente la nuca, desiderosa oltre ogni possibile immaginazione,
di poter in qualche modo cancellare il profondo dolore che sentivo sgorgare dal
suo tono di voce, come sangue fresco da una ferita mai del tutto rimarginata.
«Io
stavo male, non riuscivo a dormire e lei cantava per me, le sue condizioni
erano più gravi delle mie, eppure usava quelle poche forze che aveva in corpo
per venire in camera mia a cantare, così da riuscire a calmarmi e farmi
dormire.» Si staccò da me, lentamente, quasi soffrendo nel farlo, e ci fissammo
negli occhi. «È morta per colpa mia,» dichiarò alla fine, mortalmente serio, il
dolore che emanava era così forte da penetrarmi fin dentro all’animo, mi
sentivo quasi soffocare per la tristezza che gli leggevo in volto.
Gli
circondai il viso con le mie piccole dita, cercando di strapparlo da quei
ricordi di morte, cercando di riportarlo da me, ma Leo sembrava mille miglia
lontano.
«Se
fossi stato più forte, se non mi fossi ammalato, lei sarebbe rimasta tranquilla
a letto, si sarebbe ripresa.» Scosse la testa prendendomi una mano nella sua e
voltando la testa per baciarmi teneramente il palmo. «Gli anni subito dopo la
sua morte furono… difficili per me, non trovavo pace, non riuscivo a
capacitarmi che potesse sul serio essere morta e allo stesso tempo volevo
disperatamente diventare più forte, volevo imparare a lottare meglio di quanto
non avessi mai fatto, così da impedire che qualcun altro che amavo mi venisse
portato via.» Sorrise, un sorriso triste e tirato. «Diciamo che in questo,
essere il figlio di mio padre mi ha aiutato molto. Io volevo diventare più
forte e lui aveva bisogno di qualcuno di estremamente fidato nelle sue fila, così
da non doversi costantemente guardare le spalle, come si era trovato costretto
a fare negli ultimi tempi per colpa di tuo nonno. Iniziò quindi a insegnarmi
tutto ciò che era stato insegnato a lui; ma starmene qui, protetto
dall’influenza silenziosa della mia famiglia non mi andava bene, volevo farmi
le ossa da solo.»
Mi
schiarii la gola, carezzandogli piano la guancia con le dita ancora strette
nella sua mano.
«Quindi
sei partito?»
Lui
annuì, il volto ancora premuto contro il palmo della mia mano.
«Non
voglio raccontarti quegli anni, perché sono stati i più bui della mia vita, ma
mi hanno permesso di crescere, di conoscere persone che avevano bisogno di me,
persone che poi hanno deciso di restare al mio fianco. Solo dopo qualche anno
iniziai a lavorare ufficialmente alle
dipendenze di Gregory, perché quello era il desiderio di nostro padre,
farci lavorare assieme, ma entrambi ci occupavamo del nostro rispettivo territorio, chiedendo solo sporadicamente l’aiuto
dell’altro. Non sono pentito delle scelte che ho fatto nella mia vita, né del
percorso che mi hanno fatto intraprendere, perché è grazie a quello che sono
diventato l’uomo che vedi adesso davanti a te.»
Sollevai
leggermente il busto, per poter arrivare a toccare la sua fronte con la mia.
«L’uomo
che amo.»
Lui
sbuffò divertito, le sue dita si serrarono ancora di più attorno alle mie.
«Innamorata
di un assassino su commissione.»
Sollevai
le spalle in modo noncurante, cercando di alleggerire un po’ la situazione.
«Tanto
saremmo andati all’inferno lo stesso, sei comunque mio zio.»
Sorrise
avvicinando le labbra alle mie per baciarmi rapidamente.
«Giusto,»
concordò con un sorriso lieve. Le sue dita mi sciolsero dalla presa, e di nuovo
libera di muovere la mano la poggiai sopra il suo pettorale, dove si trovava il
tatuaggio.
«Questo
quando te lo sei fatto?»
Sospirò
appoggiandosi meglio con le spalle contro il lucido legno della porta.
«Avrò
avuto vent’anni, in quel periodo diciamo che mi sentivo un angelo della morte e
quindi molto poco saggiamente decisi di farmi quel tatuaggio.»
Sorrisi
passando il dito sopra la stoffa della sua giacca.
«Avrei
voluto tatuarmi il tuo nome prima di tornare in Inghilterra, ma non sapevo se
fossi davvero tu a scrivermi,» mi confessò serissimo, le sue mani ora strette
attorno al mio volto.
Gli
toccai il collo, il respiro accelerato, le labbra leggermente schiuse.
Improvvisamente, l’idea di fargli incidere sulla sua pelle un marchio che
testimoniasse che apparteneva a me e a me soltanto mi aveva eccitata
terribilmente.
«Qui,»
gli indicai, passando cautamente la mano sul suo bicipite. «Ma non il mio nome,
qualcosa di più semplice.»
Le
labbra di Leo si aprirono in un sorriso malizioso.
«Dovrei
tatuarmi il braccio quindi?» chiese conferma e io annuii, il cuore che batteva
all’impazzata.
«Nessuno
lo vedrebbe mai, ma noi sapremmo,» risposi, fissandogli il braccio senza
riuscire a staccare lo sguardo. La bocca di Leo calò nuovamente su di me,
togliendomi quel poco di respiro che mi era rimasto. Lappò la tenera carne,
succhiandola poi avidamente. Gemetti abbandonandomi totalmente contro di lui.
«Dannazione,
lo voglio adesso,» esclamò staccandosi dalle mie labbra. Io sorrisi, lieta che
lo volesse tanto quanto lo volevo io. Ci studiammo attentamente per qualche
secondo poi le sue dita, scesero ad accarezzarmi quasi distrattamente la gola.
«E
voglio marchiarti,» gemette, tornando a calare sulle mie labbra, famelico come
un leone che agguanta la preda.
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Mi era mancato così tanto leggere questa storia! Attendo con ansia il prossimo capitolo!
RispondiEliminaGrazie per aver trovato un po' di tempo da dedicarle <3
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