Capitolo 55

 

Rimasi per un minuto buono completamente immobile, cercando di capire come fosse possibile che quei segni si trovassero sul corpo di Christopher e, soprattutto chi glieli avesse procurati… o quando, dato che ero piuttosto certa che il giorno prima la sua pelle fosse ancora immacolata. Il marchese poi sollevò lo sguardo e si accorse di cosa i miei occhi avessero intravisto, subito, l’arcata del suo nasino puntellato di lentiggini divenne di un vivido rosso e si sbrigò a ritrarre la mano, tirandosi giù con forza la manica.

«Christopher,» lo chiamai cercando di mantenere un tono calmo e cordiale, «qualcuno vi ha fatto male?» provai a chiedere, perché in fondo le cause potevano essere molteplici, non intendevo risultare scontata nel pensare subito che fosse stato nello stesso modo in cui avevo ricevuto i miei. Lui però scosse il capo, l’arcata del suo nasino cosparso di lentiggini ora di un rosso acceso.

«Una mia sbadataggine, non fateci caso, vi prego.»

Schiusi le labbra, una risposta già pronta sulla punta della lingua, ma poi, Christopher fece qualcosa che non mi sarei mai aspettata, qualcosa che mi spiazzò totalmente.

Sollevò lo sguardo, che fino a quel momento aveva tenuto puntato sui dolcetti, e lanciò una fugace occhiata verso Stevenson. Il gesto era stato così fulmineo che quasi rischiava di passare inosservato, eppure, ero riuscita a notarlo.

E a capire.

«Stevenson,» lo chiamai voltandomi nella sua direzione, l’uomo avanzò di un passo, «potreste andare in cucina a chiedere a Lewis se per favore può prepararmi quei meravigliosi tramezzini tanto buoni che solo lui sa fare? Ho un tremendo languorino.»

L’uomo sollevò un sopracciglio, guardandomi con l’espressione di chi sa bene cosa sta succedendo ma che comunque decide di stare al gioco. Senza quindi aggiungere altro si inchinò e uscì, lasciandomi sola con il ragazzo.

Appena l’uomo fu uscito dalla stanza, Christopher parve riacquistare colore e coraggio, sollevò il capo, e i nostri occhi si incrociarono.

«Adesso potete dirmi cos’è successo?» tornai a chiedergli, lui si umettò le labbra lanciandosi una nervosa occhiata alle spalle prima di sporgersi leggermente verso di me.

«Io… credo di essermi innamorato.»

Sbattei le palpebre, genuinamente sorpresa da quella dichiarazione, lui sorrise timidamente, ridacchiando.

«Lo so, sembra sciocco, voglio dire, una persona della mia levatura, della mia cultura, che si innamora di… di un…»

Chinai il capo sorridendo a mia volta.

«Un maggiordomo?» lo aiutai con tono gentile, sperando di fargli capire in quel modo che non aveva nulla di che preoccuparsi, che avrebbe potuto confidarmi tutto quello che voleva senza timore. Christopher annuì, guardandosi ancora una volta alle spalle.

«È un uomo così… complesso.» Sospirò con fare quasi sognante.

«Ed è stato lui a farvi quei segni?» domandai, indicando i suoi polsi con un cenno del capo, lui si ritrasse sulla poltrona, afferrandosi ancora i lembi della giacca per coprirsi meglio, sforzando fin quasi al limite le cuciture di quel raffinato indumento.

«Lui non…» iniziò, il rossore che dal naso si spandeva sulle guance, «non mi ha fatto niente che non desiderassi anch’io,» dichiarò alla fine, ormai completamente porpora.

L’imbarazzo iniziò a farsi sentire anche in me, distolsi quindi lo sguardo con la scusa di chinarmi per afferrare una manciata di biscotti.

«L’importante è che fosse tutto consensuale e che stiate bene… imbarazzo a parte.»

Lui sorrise teneramente, gli occhi che brillavano, sicuramente al ricordo di ciò che era successo con Stevenson.

«Lo era,» rispose in fine, poi entrambi tacemmo finché, ancora una volta, il maggiordomo non entrò sorreggendo un largo vassoio ricolmo di spuntini, spezzando di nuovo il silenzio.

Dopo che l’ebbe sistemato di fianco al vassoio con i dolci, mi resi conto di quanto in effetti avessi fame, quindi senza tante cerimonie, afferrai con gioia un paio di tramezzini, masticandoli con gusto. Christopher, che si era di nuovo teso al rientro del maggiordomo, si mosse quanto bastava per raggiungere uno dei panini e iniziare a consumarlo con piccoli e delicati morsi.

«Christopher,» iniziai catturando la sua attenzione, «gradireste rimanere nostro ospite per qualche altro giorno? Sapete che la vostra compagnia mi delizia immensamente e sarei davvero lieta di avervi qui.»

Udendo le mie parole, il volto del giovane si illuminò, aprendosi in un meraviglioso sorriso di gioia.

«Sarei lieto di rimanere ancora un po’ qui con voi, se la cosa vi rende tanto felice,» assentì, con un briciolo del vecchio Christopher che tornava in superficie. Sorrisi infilandomi in bocca un altro tramezzino.

 

Basto quello a spezzare la tensione, parlare iniziò a essere più semplice per entrambi, il marchese riuscì quasi a tornare quello di un tempo e io ne fui lieta, Stevenson un po’ meno, giacché ogni tanto sentivo provenire dalla sua parte lievi sospiri o borbottii sommessi all’ennesima frase narcisistica uscita dalle rosee labbra dell’ospite. Dopo un’oretta passata a chiacchierare e mangiare, Christopher si alzò, affermando che non voleva certo stancare eccessivamente una signorina convalescente.

Lo salutai con calore, invitandolo ancora una volta a restare per tutto il tempo che avesse desiderato, e lui, di nuovo, accettò il mio invito con uno splendido sorriso ricolmo di gratitudine.

Quando Stevenson si mosse per scortarlo fuori, Christopher si irrigidì così tanto che temetti di vederlo inciampare nei suoi stessi passi, tuttavia riuscì ad arrivare alla porta e a varcarla senza incidenti. Rimasta sola con Stevenson scossi la testa, sorridendo.

«Hai fatto proprio colpo.»

Ma lui non si voltò subito, rimase per un lungo istante immobile, con la mano ancora stretta attorno alla maniglia della porta. Un comportamento che mi fece preoccupare.

«Stevenson?»

«Perché gli hai detto di rimanere?» sibilò, voltandosi a guardarmi, gli occhi ridotti a due fessure strabordanti collera. Sussultai spaventata, arretrando sul divano per cercare di mettere più spazio possibile tra me e lui.

«Io… credevo di aiutare.»

«Aiutare?» sputò fuori avvicinandosi di un passo. «Aiutare a fare cosa? A complicarmi la vita?» continuò a incedere verso di me cupamente e io incapace di resistere, scattai in piedi, sempre più terrorizzata.

«Lui… ha detto di essere innamorato,» provai a spiegargli, ma nei suoi occhi vedevo solo rabbia e… rimorso. Sbuffò divertito, ormai a pochi passi da me.

«E quindi?» volle sapere fermandosi a un soffio dal mio corpo. Guardai i suoi occhi blu diventati così scuri, il ciuffo chiaro di capelli che gli scivolava sulla fronte, le rughe più marcate del suo volto a causa della rabbia che stava provando.

«Ma… voi… pensavo aveste fatto—»

«L’amore?» terminò per me, scimmiottando il tono della mia voce, ferendomi.

«Non farmi ridere, Desdemona,» continuò afferrandomi brutalmente per il mento e costringendomi a tenerlo sollevato verso di lui. «Al ragazzino serviva una lezione e io gliel’ho data, non mi interessava altro. Dici che mi ama? Allora è solo un povero folle destinato a soffrire.»

Gli assestai un colpo al braccio per scrollarmelo di dosso e mi allontanai di un passo, assottigliando a mia volta lo sguardo.

«Mio dio, James,» mormorai guardandolo dal basso verso l’alto, «cos’è che ti ha ridotto così? Cosa diamine è successo nella tua vita da renderti tanto duro verso te stesso e meschino verso qualcuno che vuole solo amarti?»

«Vuole amarmi?» ripeté quasi ridendo. «E questo tu lo desumi, giustamente, dalla vostra lunghissima chiacchierata in solitaria, dall’incredibile durata di poco meno di mezz’ora, e ovviamente, dal fatto che abbiamo scopato una singola volta.»

Irrigidii la mascella, pervasa dalla collera, come non mi era mai successo prima di quel momento, per qualcuno che non fosse mia madre. Il mio istinto mi diceva di afferrare la teiera e tirargliela in testa.

«Io so cos’ho visto,» affermai decisa puntando il dito per terra, «e ti ostini a non volermi rispondere.»

«Perché dovrei farlo?» urlò, il volto rosso dalla collera. «Perché dovrei raccontarti i cazzi miei? Eh? Così che tu possa soddisfare la tua curiosità malata e cercare di rattopparmi, così come stai cercando di fare con tutti da quando sei arrivata? Ti svelo un segreto, Desdemona, non puoi aggiustare le persone.»

Arretrai di un passo, ferita per quelle parole.

«Io vorrei solo essere di aiuto.»

Rise e quel suono fu una stoccata crudele.

«Tu?»

Non aggiunse altro ma non servì, il modo in cui aveva sputato fuori quella domanda, grondando sarcasmo e scetticismo, fu abbastanza. Uscii di corsa dalla sala senza fermarmi mai, corsi su per le scale, ignorando chiunque trovassi sul mio cammino. Arrivai rapida in camera di Leo e mi chiusi dentro, accasciandomi contro la porta e scoppiando a piangere.

Singhiozzai con le ginocchia strette al petto per un tempo indefinito, gli occhiali che mi premevano contro il viso facendomi un male tremendo e il naso arrossato e tappato che mi impediva di respirare normalmente. Non capivo perché Stevenson si fosse comportato così, non capivo cosa avevo fatto di male, volevo solo che fosse felice.

«Desdemona?» la voce calma e pacata di Leo arrivò dall’altro lato della porta, sollevai il capo e lo poggiai contro l’anta di legno massiccio.

«Cosa?» chiesi, gli occhi che bruciavano per le tante lacrime versate.

«Posso entrare?»

Guardai la chiave attraverso le lenti sporche e appannate dei miei occhiali poi, goffamente, allungai un braccio per girarla nella toppa.

Subito, la porta si schiuse lentamente e la figura di Leo si fece cautamente avanti nella stanza, quasi con timore.

«Piccola,» mi chiamò dopo che ebbe richiuso la porta e si fu seduto accanto a me per terra, «cos’è successo?»

Tirai su col naso, scuotendo piano la testa mentre un suo braccio passava a circondarmi le spalle.

«Credo… di aver commesso un qualche errore.»

Lui mi chiese spiegazioni e io, scossa ancora in parte dai singhiozzi, gli raccontai cos’era successo e la discussione che ne era seguita con Stevenson.

La presa attorno alle mie spalle si fece più ferrea.

«Quel coglione,» sibilò irritato Leo, infilandomi una mano tra i capelli che ormai vagavano liberi dall’acconciatura. «Ora vado ad ammazzarlo di botte.»

Mi mossi rapida per abbracciarlo, così da impedirgli qualsiasi movimento e per poter appoggiare il capo sul suo petto.

«No, ti prego, penso… di aver sbagliato io, anche se non capisco in cosa.»

Leo sospirò stringendo ancora di più la presa sulla mia nuca e lasciandoci un bacio.

«Purtroppo James subì una grave perdita e da allora non fu più lo stesso…» iniziò lui con tono più pacato. «Crede che la colpa fu solo sua, per questo si colpevolizza in maniera estrema, ma allo stesso tempo… lui amava profondamente una persona, di un amore talmente viscerale e malato, che quando lei morì i suoi capelli divennero bianchi nel giro di qualche giorno… credo che non si sia ucciso solo perché in quel momento era incapace a farlo.» Inspirò profondamente facendomi muovere sul suo petto caldo, mi sfilai gli occhiali appoggiandoli accanto a me sul pavimento per potermi accomodare meglio senza sentirne il fastidio sul naso e dietro le orecchie.

«Diciamo che è… parecchio suscettibile quando si sfiorano certi argomenti.»

Annuii, ricordandomi di come la sua espressione fosse mutata improvvisamente e in modo così spaventoso.

«Non mi sarei dovuta immischiare,» mormorai contro la stoffa della sua giacca scura, lui borbottò qualcosa che non capii, circondandomi con entrambe le braccia.

«Tu non lo sapevi, nessuno in realtà a parte me lo sa, perché quel coglione non vuole che nessuno conosca quella storia e credimi, se non fossi stato presente durante i fatti, nemmeno io ne avrei mai saputo nulla.»

Sollevai impercettibilmente il capo per poterlo guardare in volto.

«È stato davvero così brutto?»

Il suo occhio divenne improvvisamente molto triste, sentii le sue dita ruvide circondarmi il volto, carezzandomi delicatamente le guance.

«Desdemona, se fosse successa la stessa cosa a me, appena mi sarebbe stato possibile mi sarei volentieri infilato una pistola in bocca.»

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