Capitolo 54

 

Dopo che ebbi finito controvoglia il mio pranzo, papà mi accompagnò in quello che da qualche settimana era diventato il suo studio. Fogli e carte erano sparsi ovunque, su ogni superficie disponibile, addirittura ne vidi qualcuno infilato anche tra gli scaffali e i vari mobili.

«Qui ho raccolto tutti i documenti su quest’indagine,» mi informò chiudendosi la porta alle spalle e mostrandomi una piccola chiave argentata. «Solo io posso entrare.»

Annuii, osservandomi attorno affascinata. Guardai con interesse alcuni documenti su cui erano stati riportati date e nomi a me sconosciuti, poi lunghi frammenti di quelle che sembravano trascrizioni di conversazioni. Mi avvicinai alla scrivania e la mia attenzione venne catturata da una mappa ingiallita e spiegazzata, spiegata al di sotto di tutto quel marasma di fogli.

«Cos’è quella?» chiesi, indicando l’unico stralcio di cartina visibile. Papà girò attorno al mobile e, con cautela, estrasse il foglio da sotto tutto quel disordine.

«Questa è una mappa del circondario,» mi spiegò spostando con cura i vari documenti e appunti, così da poterla stendere con cura sulla superficie. «Inizialmente avevo indagato sulla possibilità che il colpevole fosse qualcuno che abitava in zona, quindi speravo che segnando dov’erano avvenuti i ritrovamenti avrei potuto capire in che punto concentrare le ricerche.» Fermò il foglio con dei piccoli pesi e scosse la testa mentre giravo attorno al tavolo a mia volta per guardare meglio. «Ma alla fine si è rivelata una pista inutile,» continuò mostrandomi con l’indice tutte le croci scure che aveva segnato sulla mappa. «Come vedi, le ragazze vivevano tutte in paesini o casolari di campagne isolate, ma non molto distanti tra di loro, in teoria chiunque avrebbe potuto compiere questi spostamenti in pochissimo tempo.»

Guardai un segno separato dagli altri e lo indicai con la punta del dito.

«Questa qui,» chiesi guardando la zona attorno al simbolo, «è la prima ragazza? Quella che è stata ritrovata poco fuori Gloucester?»

Papà grugnì un assenso e mi voltai a guardarlo, emozionata.

«Per me, è lei la chiave di tutto.» Ne ero sempre più convinta, e mio padre si sporse sopra il tavolo per osservare il punto che stavo indicando.

«Sì,» mormorò sovrappensiero, «lei è l’unica che differisce in qualche modo dalle altre. La sola ad essere stata ritrovata in un luogo trafficato.»

«Magari fu un esperimento,» mormorai, passando lentamente le dita sopra la carta ruvida, «oppure si trattò di un incidente… dopo il quale, però, il colpevole divenne consapevole della sua vera natura.»

«E quindi tutte le altre,» continuò papà indicando lentamente ogni altra croce sulla mappa, «vennero poi studiate attentamente, forse furono anche scelte con cura per poter dar sfogo ai suoi biechi istinti, senza però rischiare di essere scoperto.»

«Finché tuttavia,» mi intromisi guardandolo, «qualcosa non è cambiato, costringendolo ad agire avventatamente, e a subirne le conseguenze è stata la figlia del baronetto Scott che…» aggottai la fronte contando i simboli che vedevo sulla mappa. Tredici. «Ne manca uno?»

Papà annuì indicandomi l’angolo in alto a destra della cartina dove aveva minutamente segnato una piccola croce con un nome. Londra.

«Lei è stata uccisa nella capitale, è la più lontana,» affermò cupamente e sentii il mio cuore palpitare, sicura che la soluzione fosse proprio lì davanti ai nostri occhi e che bastasse solo che uno di noi dicesse la cosa giusta, facesse il corretto collegamento, per poterla afferrare.

«Quando?» chiesi, quasi stupita che mio padre non avesse ritenuto quello un fatto importante; lui biascicò qualcosa di incomprensibile perso nei suoi ragionamenti e si mosse per cercare qualcosa tra le pile di fogli accatastati su di una sedia lì vicino.

«Due, quasi tre mesi fa.»

Il periodo in cui ero stata da sola con Andrew.

Mi avvicinai a mio padre per poter leggere il foglio che teneva tra le mani che, scoprii, essere la pagina del giornale che avevo già visto.

«Quindi,» riflettei ad alta voce, «in quel lasso di tempo il colpevole era a Londra, magari è stato proprio quello a mandarlo eccessivamente su di giri tanto da fargli compiere quell’avventatezza.»

Guardai il giornale giallognolo saldamente stretto tra le mani di mio padre.

«Forse non era abituato alla grande città, il trovarsi travolto da tutto quel caos gli ha fatto salire il bisogno di uccidere qualcuno, di conseguenza ha agito precipitosamente… come non gli capitava più di fare da anni.»

Mio padre annuì ripiegando il giornale e infilandolo nuovamente tra le carte sulla sedia.

«Il problema è che stando a quanto hanno detto quella sera, nessuno l’ha vista parlare con qualcuno di estraneo o sospetto. Semplicemente ad un certo punto è sparita.»

«Ma il punto è proprio questo!» esclamai, forse con più irruenza di quanto fosse mia intenzione. «Stiamo parlando di qualcuno che riesce a farsi amiche delle ragazzine. Tu mi hai detto che nessuna di loro si aspettava di essere uccisa, pertanto nessuna di loro ha lottato. Questo perché si fidavano di quella persona, non credo l’avrebbero fatto se avesse avuto un aspetto losco. Potranno anche essere state giovani ma non stupide.»

Mio padre corrucciò la fronte.

«Non ci giurerei, Desdemona.» Mi fissò intensamente. «Per amore arriviamo a fidarci anche della più immorale delle persone, qualsiasi sia il suo aspetto.»

Aprii la bocca per ribattere, ma nessuna parola mi uscì dalla gola, lui sorrise sollevando un angolo della bocca.

«Benché sia mio fratello, Leo non è certo una persona che comunichi fiducia al primo sguardo, anzi.» Chinò lievemente il capo, studiandomi. «Eppure noi ci fidiamo ciecamente di lui, no?»

«Questo perché… lo amiamo,» terminai per lui, la mia mente già persa a immaginare le possibili implicazioni di quel nuovo tassello che si andava ad aggiungere all’insieme.

«Quando amiamo,» mormorò mio padre voltandosi nuovamente a guardare la cartina costellata di piccoli segni scuri, «siamo disposti anche a credere che la bestia che abbiamo davanti sia un docile agnellino.»

Mi mossi per andare a poggiare il dito sull’unico punto esterno alla mappa.

«Ciononostante,» asserii, decisa a porre fine a quel mistero una volta per tutte, «potrebbe essere l’uomo più galante della terra o il più amichevole, potremmo avere dei dubbi su come faccia a irretire le ragazze, ma sappiamo che era a Londra due mesi fa.»

Spostai il dito per indicare la porta chiusa dello studio.

«Di sotto,» continuai con fervore, «ci sono i nostri sospettati, chi di loro si trovava a Londra nello stesso periodo? Possiamo scoprirlo in qualche modo?»

Papà scrollò le spalle.

«Credo la maggior parte di loro. Comunque sì, posso provare a informarmi, ma per avere delle risposte ci potrebbero volere dei giorni.»

Giorni, non potevamo tenere tutte quelle persone relegate sotto lo stesso tetto per così tanto tempo senza una valida scusa, prima o poi avrebbero voluto andarsene e di conseguenza, il nostro sospettato ne avrebbe approfittato per mettere quanta più strada possibile tra noi e lui.

Mio padre mi sorrise, avvicinandosi per posarmi le mani sulle spalle.

«Lo troveremo, stanne certa.»

Stavo per rispondergli quando sentii la tipica bussata di Stevenson alla porta. Mio padre lo fece entrare e il maggiordomo avanzò nella stanza inchinandosi davanti a noi.

«Perdonatemi,» iniziò rivolto verso di me, «ma il Marchese Beauclerk chiede di essere ricevuto.» Lo vidi accigliarsi, lievemente irritato. «Insistentemente,» aggiunse.

Sorrisi, dicendogli di accompagnare pure Christopher nel salottino che usavo per accogliere gli ospiti e, quando fu uscito, tornai a voltarmi verso mio padre, lui sorrise, scostandosi da me e porgendomi il braccio.

«Non ti trattengo oltre, vieni, lasciati scortare.»

Avrei voluto dirgli che preferivo rimanere lì a discutere sulla possibile soluzione di quel dilemma con lui piuttosto che scendere al piano di sotto per comportarmi da brava padrona di casa, invece ancora una volta mi bloccai, anni di timidezza e di incertezze che di nuovo mi impedivano di parlare del tutto liberamente con quell’uomo che stavo pian piano imparando a comprendere.

Così accennai un altro sorriso e gli afferrai il braccio, permettendogli di condurmi al piano di sotto.

 

Arrivammo nel salotto e trovammo Christopher in piedi vicino alla finestra, sentendoci entrare si voltò e lanciò a me e a mio padre una lunga occhiata.

«Christopher,» lo salutai avanzando nel salotto, «spero di non avervi fatto aspettare troppo.»

Lui scosse il capo, guardando mio padre con una punta di sospetto nello sguardo, mi voltai dunque verso di lui.

«Grazie per avermi accompagnata, papà.»

Lui storse la bocca in un mezzo sorriso e uscì, lasciandomi sola con il marchese.

«Vogliamo accomodarci?» chiesi indicandogli le sedute al nostro fianco e lui annuì seccamente, dirigendosi verso la poltroncina libera al suo fianco.

Il fatto che da quando ero entrata non gli avevo ancora sentito pronunciare una parola mi inquietava un po’. Presi posto sul divanetto accanto a lui, osservandolo con attenzione. Sembrava lo stesso Christopher di sempre, i lunghi capelli biondi gli ricadevano in perfetti boccoli al lato del volto, aveva le guance leggermente arrossate e la bocca schiusa, le labbra umide come se vi ci avesse passato sopra da poco la lingua. I suoi vestiti erano di un azzurro chiaro, che mettevano allegria solo a guardarli, impreziositi da meravigliosi ricami argentati.

Studiandolo attentamente, però, notai che i primi bottoni della sua camicia erano aperti e, al di sotto, riuscivo ad intravedere un segno di un rosso scuro.

In quel momento, Stevenson entrò con il solito vassoio ricolmo di tè e spuntini, spezzando il silenzio che era inaspettatamente calato in quella sala. Lo ringraziai grata e fui molto sorpresa quando lui, invece di andarsene, si posizionò al mio fianco, esattamente nello stesso punto in cui era stato durante il mio incontro con i gemelli. Non capivo per quale motivo sentisse il bisogno di essere presente anche a quell’incontro, tuttavia se Stevenson voleva rimanere al mio fianco non gliel’avrei di certo impedito, anche se così facendo rischiavamo che Christopher scoprisse il nostro segreto.

«Gradite del tè, Cristopher?»

Il ragazzo si mosse sulla poltroncina, giungendo le mani davanti a sé.

«Sì, grazie,» mormorò flebilmente, il rossore che aumentava sulle sue guance.

«Christopher,» iniziai chinandomi per versargli la bevanda, «vi sentite bene?»

I suoi brillanti occhi verdi si dilatarono leggermente.

«Benissimo,» rispose, un po’ troppo rapidamente, facendomi insospettire ancora di più.

Stevenson accanto a me sospirò quasi impercettibilmente e mi voltai a guardarlo, ma la sua espressione era indecifrabile. Porsi dunque la tazza al ragazzo che la accettò con un debole cenno del capo e un lieve sorriso.

«Mi avete portato le vostre poesie?» chiesi sorridendogli e cercando allo stesso tempo di capire cosa stesse succedendo in quella stanza, lui bevve un lungo sorso di tè, tenendo gli occhi fissi sul vassoio dei dolci davanti a noi.

«Mi spiace, no,» ammise, quasi pigolando.

Quello fu ancora più strano.

«Siete sicuro che vada tutto bene? Con me potete parlare, Christopher.»

Iniziavo a essere veramente preoccupata, ma lui sorrise, scuotendo il capo e muovendo i soffici boccoli.

«Grazie ma davvero, sto benissimo.»

Si allungò dunque per prendere un biscotto dal vassoio, ma nel movimento, la manica della sua giacca insieme a quella della camicia si sollevarono e, in quel momento, li vidi.

Seppi nell’istante stesso in cui i miei occhi si posarono su quei segni che cosa fossero, perché avevo avuto quegli stessi marchi impressi sulla mia carne.

Quelli erano i solchi rossi di una corda.

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