Capitolo 52
Quando
riuscii finalmente a calmarmi, Stevenson mi riaccompagnò cautamente verso la
mia camera da letto, dove mi fece poi accomodare al tavolino vicino alla
finestra.
«Vado
immediatamente a prenderle il pranzo,» disse inchinandosi e uscendo in fretta,
mentre la mia mente ancora elaborava tutto quello che avevo appreso negli
ultimi giorni. Omicidi, complotti, segreti… mi sembrava di essere finita
all’interno di un sogno tremendamente bizzarro. Com’era possibile, mi chiesi,
che la mia intera vita potesse cambiare in così poco tempo? Che per anni fossi
stata così chiusa nella mia mente, così assorbita dai miei problemi, da non
rendermi conto di cosa mi stesse succedendo attorno?
Molly
e Joseph, spie mandate a osservarci per conto di un nonno che non avevo mai
conosciuto; mio padre a capo di una specie di organizzazione che aiutava le
persone, macchiandosi però di crimini orribili.
E
mia madre? Mi corrucciai pensando a quella donna così bella e crudele che
infestava come una presenza maligna la mia vita. Quanto sapeva di quella
storia? Mi aveva seviziata per anni perché consapevole di essere intoccabile o
solo per un suo malato capriccio? Da dove le scaturisse tutta quella rabbia,
per me, rimaneva un mistero.
Stevenson
bussò ed entrò, ancora corrucciato a causa dell’incontro che avevo avuto prima
con i gemelli.
«Quei
due fanno sempre così?» chiesi mentre mi scostavo dal tavolino per permettergli
di apparecchiarlo.
«Anche
peggio.» Sbuffò porgendomi il tovagliolo.
«Beh…
almeno adesso che mi sono tolta il pensiero, non dovrò più preoccuparmi di
doverli incontrare da sola, no?»
Lui
scrollò le spalle servendomi il primo piatto fumante.
«Leo
è un incosciente, lo è sempre stato, ma lasciarti da sola con quei due…» i suoi
pugni si strinsero e contrasse violentemente la mascella. «Poteva succederti
qualsiasi cosa.»
Sbattei
le palpebre, perplessa.
«Ma
non credo avrebbero fatto nulla, anche se fossi rimasta da sola… credo che il
loro sia solo un modo perverso di prendersi gioco di chi hanno attorno.»
Lui
sollevò un angolo della bocca cercando invano di sorridere.
«Sei
troppo buona, giudichi sempre troppo bene le persone, un tempo ero anche io
così…» inspirò profondamente spostando lo sguardo sulle fronde degli alberi al
di là della finestra. «E commisi un errore molto grave, un errore che mi
perseguiterà per sempre.»
Istintivamente,
sollevai lo sguardo sui suoi capelli così innaturalmente chiari, nonostante la
giovane età, e mi chiesi se in qualche modo le due cose fossero collegate.
«Posso
sapere…?»
I
suoi occhi azzurri tornarono a posarsi su di me, indulgenti.
«Cos’è
successo?» completò per me la frase e io annuii, sperando che l’uomo decidesse
di condividere la sua storia. Sollevò le spalle scuotendo la testa, in un gesto
quasi incurante.
«Non
c’è molto da raccontare: ero ingenuo, innamorato e commisi un errore atroce che
costò la vita a quella persona.» Si passò una mano tra i capelli bianchi,
sorridendomi tristemente. «Si può dire anzi che il mio errore costò a entrambi
la vita.»
Trattenni
il fiato, sperando che si confidasse maggiormente, ma l’uomo indicò invece con
un gesto del capo il piatto davanti a me.
«Il
pollo da freddo non è buono.»
Lanciai
un’occhiata al pasto, poi tornai a guardarlo.
«Qualsiasi
cosa sia successa,» iniziai sperando di essergli di qualche conforto, «non
credo tu debba colpevolizzarti così tanto, sicuramente la persona che amavi non
l’avrebbe fatto.»
Lui
sorrise, scuotendo piano la testa.
«Invece
sì, lo so e con certezza.» Scostò di nuovo lo sguardo, quasi gli facesse male
continuare a guardarmi. «Perché sono state le sue ultime parole.»
Sussultai,
non aspettandomi affatto un risvolto simile, abbassai il capo sul mio piatto
afferrando di scatto le posate.
«Mi
dispiace immensamente,» mormorai avvilita, senza riuscire a trovare abbastanza
coraggio da guardarlo negli occhi dopo il mio tremendo passo falso.
«Non
devi dispiacertene,» mi informò gentilmente lui, «è successo molti anni fa e
ormai ho imparato a conviverci, cionondimeno…» il suo tono si fece
percettibilmente più duro, «non tollero più errori o avventatezze di nessun
tipo e, soprattutto, mai pensare di avere la situazione perfettamente sotto
controllo, perché c’è sempre qualcosa che può andare storto.»
Con
la coda dell’occhio lo vidi scrollare le spalle.
«Leo
invece crede ancora scioccamente di esserne capace, è ancora il ragazzo
testardo che arrivò in America convinto di poterla conquistare.»
Quell’immagine
mi fece sorridere, tornai a sollevare timidamente gli occhi sul maggiordomo che
fissava il cibo davanti a sé sembrava come… perso.
«Non
puoi controllare come andranno le cose… ma puoi controllare le persone.» I suoi
occhi apparivano quasi spiritati mentre parlava, il tono di voce era basso,
cupo, spaventoso. «Puoi costringerle a obbedirti, piegarle al tuo volere, finché
non vorranno fare altro che compiere ogni tuo ordine. Legarli così strettamente
a te che non potranno più scappare, non potranno più abbandonarti. Tue per
sempre.»
«James!» lo
chiamai quasi urlando, spaventata dalla sua espressione sempre più lugubre e
dalle parole che aveva iniziato a pronunciare in fretta.
L’uomo
parve riscuotersi, sbatté rapidamente le palpebre quasi non capisse bene cosa
fosse successo, poi si voltò verso di me.
«Mi
dispiace,» si scusò chinando lievemente il capo, «stavo pensando ad alta voce,
ogni tanto mi capita.»
Stavo
per chiedergli spiegazioni su quello strano discorso, sul suo improvviso e
inquietante cambio di atteggiamento, quando però, sentii la bussata di mio
padre alla porta. Stevenson andò subito ad aprire e lui entrò, seguito da un
uomo che non conoscevo.
«Desdemona,
tesoro come ti senti oggi?» mi salutò mio padre con uno strano tono di voce,
avvicinandosi al tavolo e notando, solo quando fu più vicino, che stavo
pranzando.
«Scusaci
se ti abbiamo disturbata, ma il nostro nuovo ospite voleva conoscerti.»
L’uomo,
un alto e distinto signore con dei corti capelli brizzolati, avanzò piano nella
stanza, guardandosi attentamente attorno.
«Vi
piace il rosa, suppongo,» disse, puntandomi contro un paio di piccoli ma
intelligenti occhi di un familiare color nocciola.
Accennai
un sorriso chinando lievemente il capo in segno affermativo.
«Ebbene
sì, signore, mi avete scoperta.»
Lui
sorrise mettendo in mostra due file di bianchissimi denti e indicando con un
gesto del capo la mia piccola pila di libri.
«Leggete
molto anche.»
Guardai
mio padre che stava impassibile tra me e lo sconosciuto, sperando spiegasse chi
fosse quell’estraneo nella mia stanza che mi porgeva quelle domande personali.
«Avete
un occhio acuto, signore,» risposi cercando di scherzare, e di nuovo lui
sorrise.
«Sì,
non siete la prima che me lo dice. Cosa vi piace leggere?»
Rimasi
un attimo interdetta, continuando a guardare mio padre nella speranza che si
ricordasse delle buone maniere e ci presentasse ufficialmente, ma lui fissava
dritto davanti a sé, visibilmente teso.
«Generalmente
romanzi gotici,» iniziai a rispondere lentamente, «ma leggo volentieri
qualsiasi cosa riesca a catturare la mia attenzione.»
L’uomo
annuì, spostandosi per mettersi a sedere sulla sedia all’altro capo del mio
piccolo tavolino.
«Prego,
continuate pure a pranzare,» mi incitò con lo sguardo, «quel piatto sembra
troppo appetitoso per lasciare che si raffreddi troppo.»
Guardai
il mio cibo, poi Stevenson che a giudicare dall’espressione corrucciata,
sembrava stesse cercando di capire chi fosse lo sconosciuto, esattamente come
me.
«Ne
volete un po’?» mi azzardai a chiedere, e l’uomo annuì soddisfatto, battendosi
una mano affusolata sullo stomaco leggermente rotondeggiante.
«Vi
ringrazio, accetto volentieri, sono appena arrivato e sto effettivamente
morendo di fame.» Mentre Stevenson si affrettava a tagliare anche a lui un
pezzo di carne e servirglielo su un piatto, l’uomo continuò a studiarmi attentamente.
«Ma prima di ogni altra cosa volevo conoscervi.»
Portai
ancora una volta lo sguardo su mio padre che si stava lentamente spostando,
girando attorno al tavolino per sistemarsi contro lo stipite della finestra.
«Potevate
dirmelo che eravate affamato,» commentò scrutandolo attentamente mentre
iniziava a tagliuzzare il pollo. «Desdemona tanto non sarebbe andata da nessuna
parte.»
L’uomo
sorrise masticando un grosso pezzo di carne e guardò mio padre dal basso verso
l’alto.
«Lo
so bene,» disse dopo aver ingoiato, «ma la curiosità era troppa per aspettare.»
E
si infilò un altro grosso pezzo di carne in bocca, spostando lentamente lo
sguardo da mio padre a me.
«Sapete,
anche a mia moglie piaceva molto leggere,» mi informò prendendo un lungo sorso
d’acqua. «Era una donna molto modesta e riservata, non ha mai chiesto niente,
mai preteso niente, le piaceva solo leggere e ricamare. Me la ricordate in un
certo qual modo.»
Sorrise
dolcemente e io mi corrucciai, studiando attentamente quegli occhi che mi
sembravano troppo familiari ma allo stesso tempo troppo stonati su quel volto.
Un brivido mi percorse l’intero corpo quando, finalmente, capii perché sentivo
di conoscerli. Il mio respiro accelerò e il cuore schizzò in gola, guardai mio
padre che mi restituì lo sguardo, sempre impassibile.
«Voi
siete il signor Thornberry,» esclamai stupita e sconvolta, l’uomo mi regalò un
sorriso ancora più smagliante.
«Esatto,
sono proprio vostro nonno.» I suoi occhi scivolarono sulla figura silenziosa di
mio padre. «Avevate ragione, è davvero intelligente, ci ha messo meno di quanto
immaginassi a riconoscermi.»
Mi
voltai verso mio padre, perplessa, non si era fatto volutamente presentare per
vedere se sarei stata in grado o meno di riconoscerlo, nonostante non l’avessi
mai visto in vita mia? A che scopo sottopormi a quell’inutile prova?
Il
signor Thornberry – perché nella mia testa rifiutavo categoricamente di
chiamarlo nonno – si pulì mani e bocca sul suo tovagliolo poi, dopo aver bevuto
un ultimo sorso d’acqua, si alzò.
«Spero
di poter conversare ancora un po’ con voi, più tardi.»
Strinsi
i pugni sul tavolo senza mai interrompere il contatto visivo con quell’uomo che
reggeva tra le mani le sorti della nostra intera famiglia.
«Vorrei,»
iniziai lentamente, certa che capisse ogni sottinteso delle mie parole, «ma
sfortunatamente oggi altri impegni richiedono la mia presenza.»
Invece
di offendersi o corrucciarsi per le mie parole, l’uomo scoppiò a ridere
sonoramente, tenendosi le mani sulla pancia.
«Desdemona,
quanto mi ricordate mia moglie,» esclamò quando l’eccesso di ilarità si fu
calmato, «anche lei quando era arrabbiata usava quel tono con me.» Si corrucciò
un attimo. «Anche se lei era senza dubbio più espressiva, ma questa non è certo
una vostra colpa.»
Prima
che chiunque altro potesse fare qualcosa, mi trovai in piedi a pochi passi da
quell’uomo così fastidioso con cui sfortunatamente condividevo il sangue.
«Signore,»
esclamai risoluta, «da quel che so, l’unico che ha qualche colpa in questa
stanza siete voi, adesso se volete scusarmi, vorrei terminare il mio pranzo da
sola.»
Ma
ancora una volta, le mie parole non sortirono l’effetto sperato, poiché
Thornberry continuò a sorridermi divertito.
«Allora
col vostro permesso,» disse inchinandosi, «mi farò condurre nella mia stanza.»
Lanciò
dunque un’occhiata significativa a Stevenson, il quale dopo aver riflettuto un
istante se rifiutare o meno di eseguire quell’ordine silenzioso, decise di
cedere. Dopo essersi scusato e inchinato davanti a me e mio padre, precedette
Thornberry fuori dalla stanza.
«Mi
fate sentire proprio il benvenuto,» scherzò l’uomo inchinandosi anch’egli,
seppur un po’ a fatica, poi, senza attendere oltre, uscì nel corridoio.
Il
maggiordomo mi guardò dall’uscio, lanciandomi un’occhiata carica di mille
significati diversi, rabbia, tristezza, rassegnazione e, forse, anche una punta
di orgoglio, poi chiuse la porta.
«Mi
spiace che tu abbia dovuto conoscerlo in quel modo,» iniziò mio padre prendendo
posto, lì dove fino a un momento prima era stato seduto l’altro uomo. «Ma come
hai sentito, ha chiesto lui di mettere su quel ridicolo teatrino.»
«Perché
mai?»
Scrollò
le spalle.
«Immagino
volesse vedere di che pasta sei fatta, senza che nessuno ti preparasse, sai,
così che tu non potessi fingere.»
«Ma
perché è qui?» volli sapere.
Mille
oscure ipotesi già pronte ad affacciarsi alla mia mente.
Mio
padre sollevò lo sguardo su di me e disse: «È stato Leo a volere che lo invitassi.»
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