Capitolo 9

 

I giorni successivi alla partenza di Leo trascorrevano lenti, come se l’intera casa fosse stata immersa nella melassa e ciò costringesse anche il tempo a rallentare. Ogni minuto pareva un’ora, ogni ora settimane intere. Il momento più bello della mia giornata era la mattina, quando mi svegliavo nella speranza di veder giungere notizie da parte di Leo, quello più brutto quando l’orario della posta passava e realizzavo che avrei dovuto resistere un altro giorno, avrei dovuto attendere fino al mattino successivo. Mia madre non sembrava soffrire questa lontananza, anzi, un pomeriggio passando accanto al salottino dove stava intrattenendo alcune amiche – che aveva chiamato solo per vantarsi che a breve sarebbe partita –, la sentii descrivere Leo con disprezzo e una punta malcelata di odio.

«Anni fa giunse un telegramma, lo dava praticamente per morto e credetemi se vi dico che sarebbe stato meglio saperlo morto che tornato in Inghilterra.» tacque un istante, per dare più enfasi alle sue parole. «Quell’uomo è il Diavolo in persona.»

Le signore presenti si lasciarono andare a commenti animati. Alcune incuriosite sollecitavano più particolari in merito a quel misterioso individuo, altre disgustate, altre ancora invece, sembravano quasi estasiate. Mia madre tuttavia, non volle rispondere ad altre domande, liquidando l’argomento come privo di interesse e preferendo invece portare il discorso sull’ultimo pettegolezzo della settimana.

Io, fuori dalla porta, avevo la mascella serrata e i pugni stretti dalla rabbia. Come poteva parlare così di Leo dopo tutto quello che stava facendo per noi? Giusto quella mattina papà ci aveva informate che i lavori per risistemare casa erano iniziati, come Leo ci aveva promesso. Come poteva quella donna odiarlo così tanto ma allo stesso tempo desiderarlo a tal punto da mettersi in ridicolo davanti al suo stesso marito?

Non ero stupida, doveva essere successo qualcosa prima che io nascessi, doveva esserci qualcosa di più, oltre al matrimonio combinato che aveva reso mia madre il mostro che conoscevo. Avrei voluto sapere, entrare in quel salottino arredato in modo tanto opulento, proprio secondo i suoi gusti e chiederle spiegazioni, pretenderle, mettendola in ridicolo davanti alle sue amiche.

In quel momento, il pendolo batté le quattro e sentii la porta dello studio di mio padre aprirsi. Non volendo che mi vedesse a origliare, mi scostai dalla porta, fingendo di camminare sovrappensiero verso la cucina.

Non appena notò la mia presenza, si diresse verso di me.

«Bene, stavo giusto venendo a cercarti.»

Tra le mani reggeva un giallognolo pezzo di carta e il cuore prese a battermi furiosamente nel petto.

«Lo zio dice che la casa ha solo bisogno di una leggera manutenzione, niente di così grave; e che ha già provveduto ad assumere tutta la servitù e la manodopera necessaria.»

Aggrottò la fronte, tornando a scorrere rapidamente con gli occhi le parole scritte nella lettera.

«Conclude che, se volete raggiungerlo potreste partire tra una settimana, così da trovare tutto al meglio al vostro arrivo.»

Una settimana, un’altra settimana di attesa. In quel momento per me era come se avessi dovuto aspettare un anno. Tuttavia, sapevo che una volta partita sarei stata totalmente in balia di mia madre e, in seguito, anche di Leo. Quei sette giorni mi sarebbero serviti per cercare, almeno in parte, di prepararmi psicologicamente a passare mesi da sola con loro.

 

I giorni che seguirono furono molto confusi, mamma non aveva pace, assillava Molly e Joseph affinché le trovassero bauli capienti e che vi stipassero dentro ogni suo più piccolo possedimento. Sembrava pronta a traslocare e, alla fine, riuscì a riempire tre grossi bauli solo per le sue cose.

Io, che avevo sempre e solo avuto un unico baule – decisamente piccolo e risalente alla mia infanzia –, cercai di stiparci dentro solo l’essenziale. Fortunatamente, non avevo mai avuto molto, quindi riuscii a farci entrare il mio altro abito da lutto, tre sottovesti, l’altro paio di scarpe, la camicia da notte e il resto della biancheria. Faticai non poco a chiuderlo, poiché le ampie gonne, per quanto le avessi ripiegate con cura, straripavano vaporose dal bordo, quindi fui costretta a sedermi sul coperchio per chiuderne la serratura. Temevo che il baule potesse cedere da un momento all’altro ma, purtroppo, quello era l’unico bagaglio che avevo a disposizione, quindi pregai che almeno non succedesse durante il viaggio o tutti i miei vestiti sarebbero andati persi per qualche strada fangosa di campagna. Mi sarebbe piaciuto portare qualche libro con me, immaginavo che nella tenuta ci fosse una biblioteca o almeno lo speravo, ma partire senza portarmi dietro almeno uno dei miei libri preferiti mi faceva sentire come se partissi senza bagagli. Alla fine, decisi di svuotare la borsetta che mio padre mi aveva regalato l’anno del mio debutto - era fatta di stoffa con ricamate sopra delle incantevoli rose -, e di provare a vedere se qualcuno dei miei libri fosse della dimensione adatta per entrarci. Fortunatamente uno, forse il mio preferito tra tutti, risultò delle dimensioni giuste per entrarci. Riuscii anche a rimettere dentro il fazzoletto con le mie iniziali ricamante e il piccolo taccuino con la matita che portavo sempre dietro, le uniche cose che tenevo lì dentro.

Soddisfatta d’essere riuscita nel mio intento, sistemai gli altri libri al loro posto e spostai baule e borsa ai piedi del mio letto, pronta almeno materialmente a quel viaggio.

 

La mattina della partenza in casa pareva essere scoppiata una guerra: svegliandomi, sentii urla e fracasso provenire da ogni stanza. Mi chiesi se non fossero entrati dei ladri e ora non stessero minacciando mio padre mentre setacciavano casa in cerca di preziosi.

Quando sentii l’urlo acuto di mia madre che rimproverava Joseph di trattare i suoi bauli con poca grazia, capii che era tutto nella norma. Anche se avrei di gran lunga preferito i ladri. Lentamente uscii dal letto e iniziai a prepararmi, addosso un misto di impazienza e paura. Io e mamma saremmo dovute rimanere da sole in viaggio circa due giorni – sempre se il tempo fosse stato clemente e le strade favorevoli, altrimenti anche di più – e io temevo quello che avrebbe potuto dirmi o farmi in quel lasso di tempo.

 

Caricati tutti i nostri bagagli, mamma salì in carrozza – dove Molly aveva già sistemato il cestino con il pranzo – senza nemmeno degnarsi di salutare, io invece, mi attardai a fissare mio padre fermo accanto alla carrozza, pronto ad aiutarmi a salire, voltai poi il capo vedendo Molly e Joseph fermi all’ingresso di casa, gli sorrisi debolmente e entrambi ricambiarono il gesto, forse era la mia vista distorta, ma giurai di vedere delle lacrime negli occhi della cuoca. Tornai a fissare mio padre, avevo così tante cose da dirgli, così tante cose da chiedergli, eppure rimasi muta a fissarlo.

«Fai buon viaggio, tesoro,» mormorò lui porgendomi la mano per farmi salire, io sbattei le palpebre, scacciando le lacrime sul punto di scivolare via, e gli afferrai la mano, salendo in carrozza e sedendomi di fronte a mia madre.

Lui chiuse lo sportello e ci fissò entrambe per qualche istante, non potei resistere, mi sporsi verso di lui, ansiosa.

«Ci raggiungerete anche voi, vero?»

Mia madre, approfittando del fatto che la carrozza era alta e nascondeva le sue azioni alla vista di chiunque, mi pestò forte un piede, a mo’ di ammonimento.

Inspirai bruscamente, mi morsi l’interno della guancia per non urlare e strinsi convulsamente la presa sullo sportello della carrozza.

Mio padre aggrottò le sopracciglia perplesso dal mio apparentemente inspiegabile comportamento.

«Ho i lavori da dirigere e diverse questioni che richiedono la mia presenza a Londra, ma…» Lanciò un’occhiata ostile a mia madre che però fingeva indifferenza ostinandosi a fissare fuori dal proprio finestrino, mentre col tacco della sua scarpa mi schiacciava le dita. «… sì, se riuscirò a liberarmi, verrò a farvi visita, così potrò anche vedere come Leo ha ristrutturato la nostra vecchia tenuta di campagna.» Mi sorrise solidale, coprendomi una mano con una delle sue e dandole una lieve stretta.

Annuii, incapace di parlare per il troppo dolore, in bocca sentivo il sapore del sangue e non riuscivo a pensare più tanto lucidamente.

Lui mi lasciò andare e fece segno a Lucas di partire, rimase fermo a fissarmi, ancora aggrappata al finestrino, finché non svoltammo l’angolo e i palazzi ci coprirono alla sua vita.

Allora, e solo allora, mia madre tolse il piede da sopra il mio e mi lanciò una delle sue occhiate più omicide.

«Dovevi proprio mettere bocca, vero?»

Abbassai lo sguardo, le mani strette in grembo, il piede che pulsava dolorosamente.

«Sapevo che avrei dovuto abbandonarti in strada quando sei nata.»

Quelle furono le ultime parole che mi rivolse per i successivi due giorni di viaggio.

E, anche se mi sarebbe piaciuto dire che non sortirono alcun effetto, dato che per tanti anni le avevo sempre sentito ripetere le stesse cattiverie nei miei riguardi, udirle nuovamente aveva fatto male esattamente come la prima volta.

 

A parte l’ostile e bellicosa presenza di mia madre nella carrozza e il piede che continuava a farmi male, per il resto, il viaggio proseguì senza ulteriori drammi. Il cielo rimase limpido per tutto il giorno e l’aria calda ci permise di viaggiare con i finestrini abbassati, così potei sentire tutti gli odori di città trasformarsi lentamente in quelli di campagna. Distinguevo la terra umida per la brina notturna, l’odore degli alberi dei boschi in lontananza, era tutto così calmo e tranquillo che più di una volta mi ritrovai a svegliarmi sobbalzando su qualche buca, senza ricordarmi quando o come mi fossi addormentata.

Arrivammo alla prima locanda giusto in tempo per la cena, mia madre però, troppo altezzosa per sedersi nella sala comune, pretese che le venisse portato il pasto in camera e lì restò, non mostrandosi più fino al mattino dopo. Io, invece, non volendo stare sola in un luogo sconosciuto, decisi di cenare con Lucas che, dopo un primo momento di smarrimento e alcuni tentativi di farmi cambiare idea, acconsentì riluttante a sedersi assieme a me. Rimanemmo in silenzio a mangiare, un po’ perché non volevo metterlo ancora più a disagio di quanto già non fosse, un po’ perché io per prima non sapevo di cosa parlare con lui. Dei nostri servitori, Lucas era quello che conoscevo meno, era sempre in giro con mio padre o fuori per qualche compito da lui assegnatogli, avevo avuto poche occasioni di vederlo e ancor meno di parlargli. Tuttavia, averlo vicino mi trasmetteva tranquillità. Forse perché era un uomo grosso e muscoloso – non quanto Leo, ma simile – e dal cuore tenero, i corti capelli tagliati a spazzola, la mascella squadrata con quel filo di barba di chi si è dimenticato di radersi al mattino, il naso leggermente gobbo, come se in passato se lo fosse rotto in modo violento –, le sopracciglia nere perennemente accigliate e gli occhi verdi sempre attenti, che gli conferivano un’aria torva; eppure appena gli si rivolgeva la parola, eccolo che usciva il suo lato dolce, un lato che ero certa, solo io e mio padre conoscevamo.

Finita la cena, mi accompagnò nella mia stanza, subito accanto a quella di mia madre e si inchinò.

«Vi auguro di dormire serenamente, Signorina.»

Gli sorrisi ringraziandolo e augurandogli lo stesso, vidi un leggero rossore colorargli le guance e annuì brusco.

«Domattina partiremo presto, subito dopo colazione. Chiederò all’oste di prepararci un altro pranzo al sacco,» mi informò, mentre si affrettava ad allontanarsi lungo il corridoio. Assentii, sorridendo. «Certo. Grazie mille, Lucas.»

Lui per poco non inciampava nello spesso tappeto del corridoio, si inchinò nuovamente, poi sparì lungo la scalinata.

Entrai in camera e, come sempre, chiusi a chiave. Vorrei dire che lo feci per evitare che qualche malintenzionato entrasse per approfittarsi di me, ma fu soprattutto per impedire a mia madre di farmi qualche sgradita sorpresa notturna.

 

Esattamente come il primo giorno, il secondo lo passai per lo più a sonnecchiare. La stanchezza, la pace che regnava tutto attorno a noi e il lento dondolio della carrozza mi aiutavano in questo, la presenza di mia madre e le occasionali buche erano le cause dei miei risvegli di soprassalto. Non riuscivo a dormire per più di qualche minuto sapendo che lei era seduta lì vicino, non potevo abbassare così tanto la guardia in sua presenza. Il piede mi faceva ancora male, un dolore sordo e persistente, tanto che ero costretta a poggiarmi quasi interamente sull’altra gamba quando camminavo. La sera prima togliendomi molto lentamente la scarpa, avevo visto le dita arrossate e tumefatte, solo toccarle mi aveva fatto sussultare dal dolore, quindi ero riuscita solo a metterci sopra una pezzuola bagnata con l’acqua della mia toletta, sperando che il fresco lenisse un po’ il dolore. Quando quella mattina mi ero svegliata ed ero scesa per la colazione, mi sembrava che fosse rimasto tutto esattamente come il giorno prima, quindi avevo arrancato lentamente verso il tavolo dove Lucas si era già seduto.

Dopo aver consumato anche il secondo pasto frugale per pranzo, ci eravamo rimessi in cammino sempre più vicini alla nostra meta.

E io sempre più spossata da quel viaggio così teso.

La seconda sera, entrata nella locanda quasi preferii non cenare affatto, per potermi infilare subito sotto le coperte e dormire. Alla fine però, ascoltando le parole di Lucas e i gorgoglii del mio povero stomaco, decisi di mangiare almeno qualche boccone di carne. Il dolore al piede nel corso della giornata si era fatto più sordo, un dolore di fondo che, se mi concentravo potevo anche ignorare e ciò mi faceva sperare che per il giorno dopo sarebbe del tutto scomparso.

Una volta che Lucas mi ebbe accompagnata in camera, ripetendo quello che mi aveva detto la sera prima per poi defilarsi velocemente prima che io potessi aprire bocca, come d’abitudine mi chiusi in camera e poi, lentamente mi misi a sedere sul letto, chinandomi per sfilare la scarpa e controllare il piede.

Tutto sommato sembrava meno arrossato della mattina, ma c’era una zona proprio sulle dita, ancora molto scura. Mi arrischiai a muoverle e per poco non urlai dal dolore. Temevo mi avesse rotto qualche osso, ma avevo troppa paura di toccarle o muoverle un’altra volta per accertarmene, e comunque non ero così esperta da sapere la differenza tra un dolore da trauma e quello da osso rotto. Avrei dovuto aspettare e sperare.

 

Quella notte il sonno non sembrò voler arrivare, continuavo a girarmi e rigirarmi nel letto, chiedendomi cosa sarebbe successo l’indomani quando finalmente saremmo arrivati alla tenuta, e poi più in generale, cosa sarebbe successo nei mesi seguenti. Mi portai le mani sulle labbra, carezzandole delicatamente; se chiudevo gli occhi potevo ancora sentire il sapore di Leo, riuscivo ancora a percepire la sua bocca sulla mia, la sua barba che mi sfregava sulla pelle, il suo corpo premuto contro il mio. Avevo cercato di non pensare troppo a quel bacio, ma esattamente come ogni cosa che lo riguardava, si era prepotentemente imposto nella mia vita, per settimane mi ero aggirata per casa, avevo mangiato, parlato, respirato, con davanti agli occhi quella scena.

Sorrisi, nemmeno la sua minaccia finale era riuscita in qualche modo a rovinare il momento, anzi, ripensare adesso a quelle sue parole mi faceva accendere come solo lui era in grado di fare. Ricordavo bene di quali punizioni era capace il mio Leo, e di come io ne adorassi ogni momento. Che avesse in mente quello per me? Sospirai sognante, sperando con tutto il cuore di sì.

Imboccammo il viale di accesso alla tenuta dei Fortescue a metà mattinata, il sole risplendeva nel cielo e ci permise quindi di ammirare il maniero in tutta la sua magnificenza, mentre la carrozza si avvicinava lentamente.

Era imponente, di un beige pallido e alto almeno tre piani, la strada per arrivarci serpeggiava lungo un meraviglioso prato perfettamente curato e tutto attorno a noi eravamo circondati da un maestoso bosco che compiva un semicerchio naturale attorno all’edificio principale, la prima cosa che pensai, istintivamente, fu che il bosco cercasse di abbracciarla.

Arrivati più vicino potei distinguere che in realtà al terzo piano sembrava esserci un’unica stanza e poi un lunghissimo balcone con piccole e meravigliose statue di marmo poste a poca distanza le une dalle altre. La stanza al terzo piano doveva essere molto grande, poiché aveva tre finestre e, su quella di mezzo era stato apposto lo stemma di famiglia, anch’esso in marmo – almeno supposi fosse il nostro stemma, da quella distanza riuscivo a scorgerne solo i contorni –; mamma, finalmente, diede i primi segni di vita da quando eravamo partiti, iniziò a sistemarsi freneticamente l’acconciatura, che era comunque impeccabile e, francamente, un po’ ammiravo quella donna per riuscire a sembrare fresca e perfetta come se avesse fatto solo pochi minuti di viaggio, io d’altro canto, stando alla faccia e ai capelli che avevo quella mattina, mi avrebbero scambiato per una povera stracciona scappata sotto una tempesta. L’essermi dimenticata a casa la mia spazzola non aiutava certo le condizioni dei miei capelli, ma avevo avuto altre priorità, preferivo sembrare un nido di uccelli piuttosto che girare senza un libro, molte signore mi avrebbero bandita dalla società mondana solo per quel pensiero.

Quando finalmente la carrozza si fermò, il mio cuore mancò un battito. Lì fuori, ad attenderci con le braccia strette dietro la schiena, c’era Leo; così meraviglioso e allo stesso tempo inquietante, con addosso solo una camicia nera sbottonata fino al petto, i pantaloni e gli stivali. Dietro di lui, tutta la servitù perfettamente disposta, pronta ad accoglierci.

Mamma batté le mani entusiasta e scivolò sul sedile lateralmente, fino a trovarsi dalla parte dello sportello che affacciava sulla casa, e quindi davanti a me.

Lucas ci aprì lo sportello e Leo tese la mano a mia madre, per farla scendere.

Mi fece male, per etichetta sapevo che spettava a lei scendere per prima, lei era più importante quindi sarebbe sempre venuta prima, eppure quello era Leo e per un breve istante avevo sperato che quella mano venisse tesa verso di me.

Contrariamente alle mie aspettative, fu Lucas ad aiutarmi a scendere e lo ringraziai con un sorriso, lui arrossì di nuovo e chinò rigidamente il capo, affrettandosi a tornare ai suoi compiti, sapevo che dopo essersi rifocillato sarebbe poi tornato a Londra da mio padre.

Rimasi quindi immobile, ferma accanto a mia madre mentre la ascoltavo descrivere il tremendo e tedioso viaggio che era stata costretta ad affrontare.

«Ma per voi, Leonard, questo e altro.»

Aggrottai le sopracciglia, perché continuava a chiamarlo così? Possibile che Leo non le avesse fatto presente che stava continuando a sbagliare?

Anche lui, infatti, si accigliò brevemente, ma quell’espressione venne subito sostituita da un sorriso cordiale.

«Mi rincresce che voi e vostra figlia siate state costrette a sopportare tutto questo,» dichiarò affabilmente, porgendo il braccio a mia madre, che lei afferrò con entusiasmo, «ma, se me lo permetterete, cercherò di cancellare i brutti ricordi del viaggio.»

Si incamminò così verso l’ingresso, presentando a mia madre ogni membro della servitù. Io li seguii meccanicamente, le guance che mi bruciavano e il petto che mi doleva in modo indicibile.

Il dolore aumentava ogni passo avanti che compivamo, continuavo a ripetermi che era normale, che era mia madre quella a cui lui doveva prestare attenzione, che non avevo motivo di sentirmi così male, ma quando arrivammo alle ultime due cameriere finalmente capii cosa ci fosse a farmi così dolere il cuore.

«E queste sono Dana e Lily, saranno le vostre cameriere personali, Mary.»

Mamma era entusiasta, si voltò a ringraziare Leo mormorando chissà quale smanceria.

Aveva dato due cameriere personali a mia madre, ma - a quanto pareva - a me neanche una, non mi aveva porto la mano per scendere dalla carrozza, né mi aveva salutata e, la cosa più dolorosa di tutte, non mi aveva ancora mai nemmeno guardata.

In quel momento, realizzai che non soffrivo perché stava dedicando attenzioni a mia madre, ma perché si comportava come se io nemmeno esistessi.

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