Capitolo 10
“Stanotte ho fatto un altro dei miei incubi
e ho passato il resto
della nottata a leggere, incapace di
riprendere sonno.
Mi piacerebbe riuscire a dormire un’intera
notte.”
“Se fossi lì con te, ti
sfinirei così tanto che dormiresti per una giornata intera.”
Quel
primo giorno fu terribile. Leo si offrì di accompagnare mia madre a visitare la
sua nuova dimora, ovviamente dopo che si fosse ripresa dal lungo viaggio e si
fosse sistemata comodamente in una delle camere. Inutile dire che mia madre
accettò raggiante e si fece scortare ai piani superiori, così da poter
controllare personalmente ogni stanza per poter scegliere quella più adatta
alle sue esigenze.
«Qual
è la vostra?» chiese spudoratamente mentre percorrevamo il corridoio del primo
piano.
«Camera
mia occupa tutto l’ultimo piano,» rispose Leo aprendole la porta dell’ennesima
camera per permetterle di esaminarla.
«Allora
voglio vedere le camere del secondo piano,» sentenziò lei, senza nemmeno badare
alla stanza che aveva di fronte. Leo chinò rispettosamente il capo chiudendo
l’uscio e riprendendola sotto braccio, voltandosi per tornare indietro verso la
scalinata.
Io,
che mi trovavo qualche passo dietro a loro, mi spostai per farli passare,
sforzandomi con tutto il coraggio e la dignità che avevo in corpo di tenere il
volto sollevato. Mi superarono senza degnarmi di un’occhiata, faceva così male
che mi sembrava impossibile che il mio cuore fosse ancora integro.
Sollevai
le gonne per seguirli, quando Leo si bloccò davanti al maggiordomo, il signor
Stevenson, che ci aveva rispettosamente e silenziosamente seguito in attesa di
ordini.
«Trovate
una stanza alla Signorina Fortescue.»
Mi
bloccai, il dolore al petto che si faceva più intenso. Sarei dovuta rimanere
lì? Quella era un’altra parte della sua punizione? Relegarmi lontana da lui
così che non potessi nemmeno sentire i suoi passi quando attraversava il
corridoio? Nemmeno quello mi era più concesso, evidentemente.
Trattenni
le lacrime mentre tenevo gli occhi puntati sull’ampia schiena di Leo che si
allontanava conversando amabilmente con mia madre, che sembrava oltremodo
soddisfatta di come stessero andando le cose. Il signor Stevenson mi si
avvicinò con un sorriso gentile sulle labbra, si inchinò lievemente e così
facendo, una ciocca dei suoi folti capelli bianchi gli cadde sulla tempia.
Aveva dei lineamenti raffinati, un naso dritto, occhi di un blu intenso. Se lo
avessi incontrato per strada, avrei giurato che fosse di sangue blu.
«Signorina,
prego, scelga pure la stanza che più le piace,» mi sollecitò sollevando il
braccio per indicarmi le varie porte del lunghissimo corridoio.
Benché
l’avessimo appena percorso con mia madre, non mi era stato possibile vedere
adeguatamente molte delle stanze, dal momento che Leo aveva richiuso le porte
subito dopo che mia madre aveva dato il suo giudizio negativo. Il piede
iniziava però a farmi seriamente male, mi ero illusa che stesse migliorando
solo perché per due giorni non l’avevo usato molto, ma adesso, ogni passo era
come una stilettata. Mi voltai verso il fondo del corridoio, dov’era situata
un’enorme portafinestra e, lentamente, zoppicai verso l’ultima porta sulla
destra.
Se
Leo voleva tenermi lontana, sarei stata il più lontana possibile. Aprii la
porta prima che Stevenson potesse farlo per me e rimasi a bocca aperta.
La
camera era un tripudio di rosa e bianco.
Le
pareti erano dipinte di un tenue rosa antico, le tende delle due finestre che
affacciavano una sul lato della casa, una sul retro – proprio sul limitare del
bosco –, erano bianche, le ante della cabina armadio, la toletta, il cassettone
e persino i comodini invece erano di un rosa chiaro perfettamente intonato con
le pareti.
Mi
avvicinai esitante al letto, poggiando i piedi sul soffice tappeto
dall’incantevole motivo floreale che copriva tutto il pavimento della camera.
Toccai con mano esitante il copriletto di quell’alcova gigantesca, tracciai con
il dito i complicati ricami dorati che percorrevano tutta la trapunta rosa
pallido, le tende del baldacchino avevano lo stesso complicatissimo e
meraviglioso motivo che conoscevo, l’avrei decifrato attentamente nel corso
delle future settimane.
«Miss,
se posso osare, sembra che questa stanza vi piaccia molto.»
Mi
voltai, un piccolo sorriso sulle labbra.
«Sì,
Stevenson, mi piace tantissimo.»
L’uomo
sorrise a sua volta, sembrava molto compiaciuto, ma non fece altri commenti, limitandosi
a chinare appena il capo.
«Allora
se permettete, faccio portare su il suo baule.»
E
si allontanò, lasciandomi sola nella mia nuova stanza, che aveva più l’aria di
essere un confetto che una camera da letto, ma io la adoravo. Era così
colorata, così… bella. Tutto l’opposto della mia vecchia camera dagli anonimi
toni di bianco e grigio. Stando in quella stanza, mi sentivo quasi una
principessa.
Un
paio di servitori arrivarono portando il mio baule, seguiti a ruota da
Stevenson che sembrava controllare tutto come un falco, pronto a scovare il più
piccolo errore. Li ringraziai cortesemente e li congedai, i due si inchinarono
e sparirono oltre l’uscio aperto, Stevenson rimase lì.
«Vi
serve altro, Miss? Volete che chiami qualcuno per aiutarvi a disfare i
bagagli?»
Scossi
la testa, mestamente.
«No,
grazie Stevenson, come vedete non c’è molto, posso occuparmene anche da sola.»
Lui
chinò lievemente il capo e fece qualche passo verso la porta.
«Miss,»
mi chiamò di nuovo quando fu ormai arrivato sull’uscio, «il pranzo verrà
servito a mezzogiorno, la cena alle otto.»
Lo
ringraziai per quell’informazione e lui annuì, sembrava combattuto su qualcosa,
alla fine mi guardò dritto negli occhi.
«La
biblioteca è al piano terra, ala est.»
Detto
ciò sparì lungo il corridoio, lasciandomi oltremodo perplessa.
Mi
mossi cautamente verso la porta per chiuderla, riflettendo su ciò che era
appena successo.
Perché
Stevenson mi aveva detto dove trovare la biblioteca? Perché sembrava così
soddisfatto quando avevo scelto quella stanza?
Mi
avvicinai a una delle finestre per poterne studiare i tendaggi e osservare
meglio il paesaggio. Mentre carezzavo il ricamo in rilievo sulle tende, mi
domandai anche perché ci fosse una stanza simile in quel maniero. Sembrava
qualcosa creato appositamente per una fanciulla, ma che io sapessi quel luogo era
rimasto in stato di abbandono per anni e tutto in quella stanza, dal mobilio
alla tappezzeria, sembrava in ottimo stato.
Un
lampo mi attraversò la mente.
Possibile
che fosse stata arredata per me?
Sospirai,
tornando verso il letto e scuotendo il capo. Impossibile, Leo mi aveva portata
lì solo per farmi soffrire, dubitavo fortemente che in mezzo a tutti i lavori
di ristrutturazione della casa, avesse anche deciso di chiamare qualcuno per
arredare quella stanza, solo per me.
Mi
stavo dando troppa importanza… io non ero niente.
Sistemai
le mie cose in poco tempo; la cabina armadio era eccessivamente grande e mi
assalì un po’ di tristezza vedendoci appeso solo il mio misero vestito nero di
ricambio, le mie scarpine abbinate e il mio cappello con il velo.
Anche
i cassetti alla fine, risultarono mezzi vuoti quando finii di disporvi dentro
la biancheria e le sottovesti.
Tirai
fuori anche il mio piccolo libro dalla borsetta e lo appoggiai sul comodino
vicino a quella che avevo deciso essere la mia parte del letto. Dopodiché mi
guardai attorno, spaesata.
Cosa
dovevo fare adesso?
Mi
sarebbe piaciuto uscire ed esplorare un po’ tutto quanto, ma il dolore al piede
aveva la precedenza.
Mi
sedetti quindi sulla piccola sedia imbottita di fianco alla cassapanca e mi
sfilai la scarpa.
Il
piede si stava gonfiando e arrossando nuovamente, non avrei dovuto sforzarlo
tanto. Cercando di non poggiarlo a terra, mi mossi lentamente verso la toletta,
fortunatamente la brocca era piena d’acqua fresca, afferrai la mia borsetta e
ne estrassi il mio fazzoletto, intingendovelo.
Andai
poi verso il letto e mi lasciai cadere sopra quella meravigliosa trapunta, il
materasso era così morbido, sembrava di stare sdraiata su una nuvola.
Poggiai
il piede malconcio sul materasso e ci posai sopra il fazzoletto bagnato.
Il
contatto con l’acqua e la stoffa mi fece contrarre i muscoli dal dolore,
tuttavia mi sembrava l’unica cosa opportuna ed efficace.
Rimasi
ferma in quella posizione, col piede sollevato e uno ancora a terra,
parzialmente sdraiata sul letto in attesa di sentire concreti miglioramenti,
finché non udii una pendola da qualche parte della casa, battere dodici
rintocchi.
Scattai
a sedere, terrorizzata al solo pensiero di arrivare tardi per il pranzo, tolsi
il fazzoletto che, gocciolando, aveva bagnato anche un po’ la trapunta e
cautamente, provai a tastare la pelle arrossata. Forse l’acqua fredda l’aveva
resa insensibile, perché sentivo meno dolore di prima, proprio quello che mi
serviva per riuscire ad arrivare in sala da pranzo… se mai fossi riuscita a
trovarla.
Stavo
per poggiare il piede a terra, quando bussarono alla mia porta. Sussultai
sorpresa.
«Avanti,»
dissi automaticamente, senza nemmeno disturbarmi a chiedere chi fosse.
Stevenson
aprì la porta e chinò leggermente il capo.
«Miss,
il pranzo sta per essere servito, volete che vi accompagni in sala?»
Mi
trovai a sospirare nuovamente, grata del suo arrivo.
«Sì,
grazie Stevenson, ho solo bisogno di un istante,» risposi mentre spostavo il
piede livido per terra e mi affrettavo – al limite delle mie possibilità – ad
aggirare il letto per andare a recuperare l’altra scarpa.
Finita
tutta quell’operazione sollevai lo sguardo sul maggiordomo, e lo scoprii
intento a fissarmi corrucciato.
«Miss,
se posso, cosa vi è capitato al piede?»
Io
aprii la bocca, poi la richiusi. Francamente, in quei giorni avevo avuto la
testa così concentrata su altro che non avevo nemmeno pensato a una scusa
plausibile da raccontare nel caso qualcuno avesse notato la mia ferita.
«Io…
uno sfortunato incidente, Stevenson. Una sciocchezza che guarirà subito.»
Sorrisi
debolmente avvicinandomi a lui.
Il
suo sguardo si fece improvvisamente serio.
«Contessa, mi sembrava tutt’altro che una
sciocchezza.»
Sgranai
gli occhi, la testa totalmente in confusione, nessuno mi aveva mai chiamata
così, io non… era mia madre la contessa, io ero solo la signorina. Non avrebbe dovuto chiamarmi così. Eppure, per qualche
motivo, sentirglielo pronunciare, mi fece incredibilmente piacere.
«Non…
non sono contessa, Stevenson.»
Lui
sorrise, chinando il capo e facendomi segno con la mano di precederlo.
«Non
ne sarei così sicuro.» Fu la sua enigmatica risposta.
Il
pranzo fu un altro colpo che andò a infierire sul mio povero cuore, non perché
si rivelò estremamente pregno di eventi, ma anzi, tutto il contrario. Arrivai
in sala e la trovai vuota. Il grande tavolo era apparecchiato solo per uno, me.
Mi
misi a sedere e subito le cameriere si sbrigarono a far vorticare attorno a me
pietanze su pietanze. Il cibo però in quel momento era l’ultimo dei miei
problemi.
«Dove
sono mia madre e lo zio?» chiesi a Stevenson che se ne stava in disparte dietro
la mia sedia, lo sentii avvicinarsi di qualche passo affinché non dovesse
urlare.
«La
signora ha preferito pranzare in camera, il lungo viaggio l’ha oltremodo
spossata e non se la sentiva di scendere a pranzo,» quello era tipico di mia
madre, ingigantire le cose per far sentire tutti in colpa e in pena per lei, «e
il padrone ha deciso di tenerle compagnia.»
Se
avessi avuto qualcosa tra le mani, probabilmente mi sarebbe caduto a terra,
fissai Stevenson senza emettere alcun suono. Dopo anni passati a sentirmi
criticare per la mia inespressività, finalmente ero grata a quel mio difetto; in
quel momento era come una maschera, che nascondeva il mio profondo turbamento
agli occhi del mondo.
«Il
padrone vuole anche che sappiate che domani darà un ricevimento, con pochi
intimi, per festeggiare il vostro arrivo.»
Deglutii,
ma avevo la gola così secca che mi parve di mandare giù un pugno di sabbia.
«Per
festeggiare mia madre, volevate dire.»
Lui
non rispose ma un lampo di sorpresa gli attraversò lo sguardo, fu più che
sufficiente.
Pranzai
lentamente, gustandomi ogni portata come non mi era mai capitato di fare, gli
acidi commenti di mia madre sul mio peso corporeo arrivavano sempre puntuali
ogni volta che il mio piatto era troppo ricolmo per i suoi standard. Non
essendo abituata a mangiare così tanto, alla seconda portata ero già sazia,
tuttavia, decisi di assaggiare anche una fetta di torta che la cuoca aveva
fatto quel giorno. Era deliziosa e me ne godetti ogni morso.
Finito
il pranzo, chiesi a Stevenson di mostrarmi la cucina, volevo fare i complimenti
alla cuoca e chiederle la ricetta di quel dolce squisito.
Il
maggiordomo ci pensò su un attimo mentre il suo sguardo correva brevemente
verso il basso, sui miei piedi, sembrava volesse dire qualcosa, ma alla fine
obbedì.
La
cucina era dall’altra parte della casa rispetto alla sala, quindi dovemmo
camminare un po’ prima di arrivare a destinazione, non volendo appoggiare le
dita a terra, provai a camminare poggiando solo il tacco.
Era
scomodo e il mio zoppicare era più accentuato, ma almeno non andavo a premere
direttamente sulla punta del piede.
Varcata
la porta della cucina, mi bloccai spaesata.
Vicino
ai fornelli c’era un uomo, un uomo con indosso il grembiule.
Sbattei
le palpebre un paio di volte, non fidandomi dei miei occhi. Stevenson si
schiarì la voce per attirare l’attenzione dell’uomo che, difatti, si voltò
nella nostra direzione.
«Oh,
Contessa! Che onore avervi nella mia
cucina.» Aggrottò poi le sottili sopracciglia castane. «C’era forse qualcosa
che non andava col pranzo?»
Ero
ancora troppo intontita per rispondere, non ricordavo di averlo visto quando
eravamo arrivati poche ore prima ma, riflettendoci, non ricordavo che Leo
avesse presentato nessuna delle donne presenti come cuoca.
L’uomo
sembrava avere pochi anni più di me, nonostante la sua notevole statura – era
certamente più alto di Leo – era anche incredibilmente magro per fare quel tipo
di lavoro, aveva dei lunghi capelli castani tenuti legati stretti dietro la
testa e acuti occhi dello stesso colore. L’espressione del suo viso era
gentile, ma avevo imparato molti anni prima che le persone apparentemente dolci
nascondevano i peggiori lati oscuri.
«La
contessa in realtà voleva complimentarsi per il pasto, Lewis.»
Sbattei
le palpebre, cercando di riprendere il controllo del mio corpo e della mia
voce.
«S-sì!
Esatto, era tutto delizioso…» lanciai un rapido sguardo a Stevenson, «Lewis.»
L’uomo sorrise, inchinandosi. «Sono lieto che la mia cucina vi piaccia,
Contessa.»
Perché
tutti continuavano a chiamarmi così? Era oltremodo strano.
«Ecco…
non sono la contessa. Sono la figlia.»
Lewis
lanciò una stranissima occhiata a Stevenson, voltai il capo per osservare il
maggiordomo che in quel momento a giudicare dallo sguardo, sembrava nel bel
mezzo di una conversazione silenziosa col cuoco.
«Ma
certo,» disse infine Lewis tornando a guardare me, ma dalla sua voce traspariva
un filo di divertimento, «perdonatemi, Signorina.»
E
si chinò nuovamente.
«Miss,
fareste meglio a tornare in camera adesso, per riposarvi.»
Stevenson
mi scortò fuori dalla cucina prima che potessi chiedere a Lewis la ricetta del
dolce.
Tornata
in camera, mi lasciai cadere sul letto. Era così morbido e i cuscini così
soffici che, in pochi istanti, caddi profondamente addormentata.
Mi
svegliai di soprassalto che era già buio fuori, non sapevo che ore fossero ma
mi sembrava incredibilmente tardi. Più in fretta che potei, mi diedi una
sistemata e scesi zoppicando al piano di sotto, lanciai un’occhiata alla
pendola posta in cima alla prima rampa di scale e notai con orrore, che erano
quasi le nove.
Affrettai
il passo, rischiando più di una volta di inciampare a causa del mio piede
dolorante e della mia gonna sempre fastidiosamente troppo lunga.
Entrai
in sala ansante e mi bloccai, con la mano ancora sulla maniglia della porta.
Mia
madre e Leo stavano cenando tranquillamente, così assorbiti dalla conversazione
da non aver nemmeno notato la mia presenza.
Stevenson,
in piedi dietro la sedia di Leo, si precipitò subito verso di me e, solo a
causa del suo movimento, i due presero atto del mio arrivo.
«Ah,
Desdemona,» sibilò mia madre, come se stesse nominando qualcosa di orribilmente
disgustoso.
Guardai
la tavola apparecchiata e sentii il cuore gelarsi, non c’era il mio coperto.
Leo
si alzò in piedi come segno di galanteria, ma nei suoi occhi non c’era
gentilezza, nelle sue parole non c’era nessun tipo di sentimento quando
finalmente, dopo un’intera giornata passata a ignorarmi e a evitarmi, decise di
rivolgermi la parola.
«Chiediamo
venia, nipote, per aver iniziato a mangiare senza di voi, ma non ci eravamo
accorti della vostra assenza.»
Mi
voltai e uscii di corsa dalla sala. Non mi importava del piede, delle gonne che
mi fecero cadere due volte, non mi importava più di niente. Mi rifugiai in
camera chiudendomi dentro, così che niente del mondo esterno potesse
raggiungermi, che niente potesse farmi ancora così male.
Come
non mi succedeva più da anni, sentii il bisogno di rannicchiarmi sotto il letto
in posizione fetale.
Rimasi
nascosta lì sotto a piangere tutta la notte.
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