Capitolo 11

 

“Mi dispiace, finisco col parlare sempre di me e dei miei problemi.

Deve essere tremendamente noioso leggere le mie lettere

e trovare qualcosa di gentile da scrivermi in risposta.”

 


“Tu e le tue lettere siete l’unico motivo per il quale non sono ancora morto.”

 

 

Venni svegliata dal rumore di colpi leggeri, ma insistenti, contro la porta della mia stanza. Stordita, aprii gli occhi e in un primo momento faticai a capire dove mi trovassi, poi la lieve umidità e la ruvidezza del tappeto sotto di me mi riportarono ai terribili momenti della sera prima, rammentandomi che mi ero addormentata mentre me ne stavo rannicchiata sotto al letto, e del perché l’avessi fatto.

In un primo momento, l’istinto mi suggerì di continuare esattamente da dove mi ero interrotta, sentivo già le lacrime pizzicarmi gli occhi doloranti, ma i colpi contro la mia porta non volevano darmi tregua, quindi faticosamente, strisciai fuori dal mio nascondiglio sicuro contro il mondo, issandomi a sedere sul bordo del letto.

«Sì?» la mia voce risultò terribilmente arrochita, sia a causa della mia nottata in lacrime, che del risveglio.

«Miss, perdonatemi per il brusco risveglio, ma la colazione sarà servita a breve.»

La voce di Stevenson sembrava parecchio ansiosa, ma forse era solo la porta che attutiva e distorceva i suoni.

Lanciai una rapida occhiata allo specchio sopra la toletta e già solo i contorni della mia figura scarmigliata mi fecero rabbrividire. Non avevo il tempo di prepararmi adeguatamente per scendere in tempo per la colazione e, sicuramente, non volevo assolutamente rivivere una scena come quella del giorno precedente.

«Credo che rimarrò in camera. Grazie, Stevenson.»

Non udii i suoi passi allontanarsi, quindi supposi che fosse ancora fermo davanti alla mia porta.

«Lewis ha preparato un nuovo dolce da farvi assaggiare, Contessa

Ammetto che la prospettiva di assaggiare la nuova creazione del cuoco mi faceva venire l’acquolina, ma semplicemente, non ero abbastanza forte per reggere un’altra pugnalata di Leo quella mattina. Non che comunque lo fossi stata in precedenza.

«Ringraziatelo da parte mia, Stevenson, ma adesso gradirei essere lasciata da sola.»

Di nuovo, il maggiordomo restò lì impalato.

«Vi porterò su un vassoio, così potrete fare colazione in camera.»

E si allontanò rapido, lasciandomi senza parole, ma con un lieve senso di divertimento che cercava di farsi strada attraverso il torpore causato dalla tristezza.

Decisi in quel momento, che quel giorno non sarei uscita dalla mia camera, tanto comunque nessuno avrebbe notato la mia assenza.

Mossi lentamente il collo dolorante e iniziai a sbottonarmi il vestito, almeno in camera non avevo bisogno di morire soffocata da quella moltitudine di bottoni. Sebbene quel vestito mi calzasse un po’ meglio dell’altro, erano comunque entrambi troppo stretti di petto e lunghi di gonna, il che rendeva il mio lutto l’autentico calvario che avrebbe dovuto essere, almeno secondo la società.

Lo sbottonai fino a raggiungere il bottone più critico di tutti, quello posto proprio sopra i miei seni e, sganciato anche quello, fu come liberarsi di un peso immenso.

Un altro motivo di imbarazzo per mia madre e di scherno per la società nei miei riguardi, era proprio la dimensione del mio seno. Si supponeva che una signorina non dovesse averne uno di quelle dimensioni; a detta di alcune matrone, era a dir poco volgare e andava solo coperto per non farmi passare per “una facile”. Inutile sottolineare a quelle pie donne che le loro figlie, sebbene quasi piatte come tavole, andavano in giro con abiti così scollati che più che “facili” sembravano direttamente delle “prostitute”.

A causa del mio seno, non avevo mai potuto indossare un corsetto sotto gli abiti – l’avrebbe solo accentuato di più –, e quello era stato, ovviamente, un altro motivo per cui tutti mi avevano sempre aspramente criticata e derisa.

Sospirai, scostandomi i lembi del vestito per far respirare un po’ la pelle accaldata, qualsiasi cosa facessi non andava mai bene per nessuno. Avrei adorato dire a tutti quanti loro cosa pensassi realmente, ma il terrore come sempre mi teneva immobile al mio posto.

Udii dei passi che si avvicinavano alla mia porta poi, la bussata lieve che ormai stavo imparando ad associare a Stevenson, risuonò nell’aria.

«La colazione, Contessa.»

Sorrisi, scuotendo la testa e zoppicando verso la porta per aprirla.

«Non sono la contessa,» lo corressi facendolo entrare, lui mi sorrise chinando lievemente il capo, poi sembrò indeciso su dove appoggiare il vassoio in assenza di un tavolino.

«Potete metterlo sul letto, Stevenson, non è importante.»

Lui eseguì, ma scattò subito sull’attenti. «Questo è inaccettabile, Miss, provvederò affinché vi vengano subito portati in camera tavolo e sedie, così anche voi potrete consumare i vostri pasti in camera.»

Stavo per dirgli che non ce n’era bisogno, ma lui con un rapido inchino, aveva già oltrepassato la soglia.

Rimasi un attimo basita a fissare il punto in cui era sparito, quando lo vidi ritornare.

«Miss, stamattina ho anche mandato a chiamare il dottore. Le consiglio di stendersi, dovrebbe arrivare a breve.»

E si dileguò di nuovo oltre la soglia, lasciandomi a bocca spalancata. Quell’uomo non poteva assolutamente essere un maggiordomo. Nonostante ciò mi trovai a sorridere, mentre mi toglievo le scarpe e cautamente mi sedevo sul letto, attenta a non far traballare il vassoio con cibo e bevande. La porta della stanza era rimasta aperta ma non avevo voglia di rialzarmi per chiuderla, quindi mangiai ascoltando i rumori della casa, mi accorsi che le cameriere che passavano a rassettare si stavano avvicinando alla mia porta e cercai di chiudermi il vestito, ricordandomi solo in quel momento che Stevenson mi aveva vista a quel modo. Mi sentii ardere per l’imbarazzo mentre le due ragazze entravano inchinandosi e chiedendo se potevano riordinare.

Sicuramente avrebbero preferito che io non fossi stata lì a osservarle, tuttavia eseguirono il loro lavoro velocemente e senza errori, non poterono cambiare le lenzuola perché vi ero seduta sopra, insieme alla mia colazione, ma le rassicurai dicendo loro che tanto il letto non era stato usato la sera prima e che quindi le coperte non andavano cambiate. Le due non sembrarono soddisfatte della mia risposta, tuttavia la accettarono e uscirono, inchinandosi profondamente e chiudendosi la porta alle spalle.

Rimasi a fissare il contenuto del vassoio, sovrappensiero, per diversi minuti. Nonostante l’atteggiamento freddo di Leo, tutto il resto della casa sembrava oltremodo desideroso di accontentarmi… se non addirittura di piacermi, per non parlare del continuo sbaglio di titolo, che iniziava a ripetersi troppo di frequente perché si trattasse di una semplice svista. Leo sicuramente aveva architettato qualcosa di terribile: punirmi in quel modo, fingere che io non esistessi, che non fossi nulla per lui dopo le nostre lettere ma soprattutto, dopo il nostro bacio, era qualcosa che rasentava il disumano.

Non gli avevo mai raccontato certi episodi avvenuti con mia madre, per paura di espormi troppo e smascherarmi, ma gli avevo sempre fatto capire che in casa spesso mi sentivo come se non esistessi e che grazie a lui, ero tornata a vivere. E ora, proprio lui, proprio il mio Leo, mi feriva nel modo più crudele possibile.

Scossi la testa, cacciano via le lacrime. Per quanto avrei dovuto sopportare quella tortura? Mio padre per averlo inavvertitamente fatto cadere, aveva sopportato animali morti per mesi, io avrei dovuto reggere per lo stesso lasso di tempo o più? Mi sentivo esausta già solo dopo il primo giorno.

Il tramestio fuori dalla mia porta mi riscosse dai miei pensieri, sollevai il capo mentre udivo delle voci parlottare fuori dalla mia porta e una mano, piuttosto pesante, bussarci. Li invitai a entrare, e gli stessi due ragazzi che avevano portato su il mio baule il giorno prima avanzarono trasportando un piccolo tavolino circolare e un paio di sedie. Si inchinarono, poi guardandosi attorno, quello che portava il tavolino mi chiese dove preferissi disporli.

Osservai anche io la stanza e alla fine gli indicai lo spazio vuoto ai piedi del letto, proprio davanti a una delle finestre. Mentre loro eseguivano, Stevenson arrivò tallonato da un omino basso e canuto con un paio di rotondi occhiali d’orati pinzati sugli occhi.

Bussò alla porta anche se era già aperta e entrò, prima che io potessi dire nulla.

«Miss, il dottore è arrivato.»

L’uomo si chinò sorridendo cordialmente.

«Buongiorno, sono Timothy Russell, lieto di fare la vostra conoscenza anche se in una situazione poco piacevole.»

Cercai di sorridere mentre Stevenson scostava il vassoio dal letto e lo appoggiava sul mio nuovo tavolino – misteriosamente in tinta con il resto della stanza, esattamente come le sedie –, più tardi avrei dovuto chiedergli spiegazioni; poi fece segno ai due inservienti di uscire, avrei dovuto chiedere anche i loro nomi, per poterli ringraziare.

«Sono Desdemona Fortescue, il piacere è mio, mi rincresce accogliervi così, ma…»

«Oh, non c’è da preoccuparsi, signorina.»

Il medico si avvicinò appoggiando la sua borsa sopra il mio comodino.

«Mi è stato detto che non vi sentivate bene, e permettetemi di dirvelo, siete comunque splendida.»

Sentii le guance andarmi a fuoco, abbassai il capo, non abituata ai complimenti, di nessun tipo, anche quelli più banali fatti per pura cortesia.

Stavo per rispondere quando avvertii dal fondo del corridoio, il rumore di passi che conoscevo molto bene.

Perché avevo trascorso notti intere ad attenderli.

Mi irrigidii nel preciso istante in cui Leo comparve sulla soglia, il suo solito sguardo truce fisso su di me.

«Cosa sta succedendo qui?» chiese brusco facendo voltare con un sussulto spaventato il povero medico. Stevenson chinò leggermente il capo.

«Padrone, la Signorina è ferita, ho ritenuto opportuno chiamare il dottore per accertarsi delle sue condizioni.»

Leo sollevò un sopracciglio scrutandomi attentamente, sicuramente cercava qualcosa in me che non andasse, i suoi occhi si soffermarono un po’ troppo sulla mia scollatura e vidi un’ombra scura passargli in volto.

Il povero dottor Russell si avvicinò a Leo, desideroso di presentarsi al nuovo padrone del maniero, ma lui lo liquidò con un grugnito.

«Pensate a curare mia nipote, qualsiasi cosa abbia, tenete per voi queste frivolezze.»

L’uomo impallidì visibilmente e, come da ordini, tornò a voltarsi subito verso di me.

Ora, gli occhi di tre persone erano fissi su di me, mi sembrava come se qualcuno mi avesse di nuovo allacciato tutti i bottoni del vestito.

«Dunque, signorina, sareste così gentile da dirmi cosa vi duole?»

Sospirai stancamente e mi sollevai il lembo della gonna affinché il dottore vedesse il mio piede.

Notai il cambiamento nel suo volto, nel momento in cui l’“uomo” venne sostituito dal “medico”, tutto l’imbarazzo e il disagio provati per l’arrivo di Leo erano svaniti, rimpiazzati da una fredda praticità. Mi chiese il permesso di toccarmi e glielo concessi con un cenno del capo.

Si inginocchiò e cautamente, mi prese il piede tra le mani.

«Com’è successo?» domandò, tastando delicatamente tutta l’area arrossata attorno alle dita. Io sollevai lo sguardo, in cerca di nemmeno io sapevo cosa. Stevenson stava immobile di fianco al medico e lo osservava lavorare, e Leo, ancora fermo sullo stipite ora a braccia conserte, aveva un’espressione corrucciata in volto.

«Ecco, è stato un incidente…» continuavo a non avere una scusa valida per quella ferita, il dottore mi toccò quel dito che fin dal primo giorno era rimasto nero, e io urlai chiudendo gli occhi, aggrappandomi alle coperte e cercando istintivamente di ritrarre il piede.

«Quanto tempo fa è successo?» chiese ancora il medico, io ansimavo, ancora scossa dal gran dolore che avevo provato, inspirai pesantemente un paio di volte, tentando di riacquistare la calma necessaria per rispondergli.

«T-tre giorni fa,» mormorai riaprendo gli occhi e accorgendomi che Leo si era spostato e adesso stava proprio dietro al dottore, intento a fissare pensieroso il mio piede gonfio e livido.

«Mmm… mi saprebbe descrivere le dinamiche dell’incidente, signorina?» proseguì, allungano la mano libera e poggiandomela delicatamente sulla fronte, scostandola dopo pochi attimi.

Mi morsi il labbro mentre il dottore iniziava a muovermi delicatamente il piede in tutte le direzioni.

«È-è-è… così i-importante?»

«Sì, lo è.»

Sollevai lo sguardo, a rispondere non era stato il dottore ma Leo. Mi fissava serio e furente, e in quel momento qualcosa in me scattò, decisi che lui non aveva nessun diritto di sentirsi in quel modo.

«Avevo appoggiato male il mio baule per il viaggio sul letto e mi è caduto sul piede.»

Era una bugia e lui lo sapeva. Lo vidi stringere la mascella e socchiudere gli occhi, ma di nuovo, pensai che se c’era qualcuno in quella stanza che non doveva essere arrabbiato, quello era proprio lui, quindi cercai di assottigliare gli occhi al suo stesso modo, un po’ per scimmiottarlo, un po’ per fargli capire che quel giorno, non avevo proprio voglia di stare al suo gioco.

«Dunque, dalla descrizione e da quello che posso vedere qui, il terzo dito sembrerebbe fratturato e seriamente contuso, l’intero piede sembra malmesso in effetti, inoltre la ragazza ha la febbre, cosa che confermerebbe la teoria della frattura.»

Mi invitò a sollevare il piede sul letto e si alzò, aprendo la sua valigetta e frugandovi dentro. Avevo la febbre? Resistetti all’impulso di sollevare le mani per toccarmi la fronte, con tutto il trambusto di quei giorni evidentemente non ero mai stata abbastanza tranquilla da rendermi conto di stare effettivamente male.

«Dovrò tornare a controllarvi per accertarmi che l’osso non sia rotto, ma per il momento vi applicherò una pomata lenitiva e vi fascerò il piede strettamente, in modo che il dito resti fermo e che quindi l’eventuale frattura possa guarire senza troppi sobbalzi.»

Si voltò verso Stevenson, che non aveva mai perso di vista un movimento dell’uomo.

«Osservate bene ciò che faccio, la pomata va applicata tre volte al giorno e dovrete essere voi a rifarle la fasciatura al piede. È importante che il dito resti fermo e che la signorina non cammini appoggiandovi il peso sopra.»

Rimase in silenzio per alcuni secondi, con le bende e l’unguento stretti tra le mani.

«A pensarci bene,» riprese avvicinandosi al mio piede, «sarebbe meglio se la signorina non si muovesse affatto per i primi tempi.»

L’idea di passare intere giornate a letto non mi dispiaceva per niente, anzi, se Stevenson fosse stato così gentile da portarmi un po’ di libri e qualche candela, avrei potuto anche stare chiusa in quella stanza per sempre.

Il medico stava per aprire il barattolo e iniziare a spalmarmelo sul piede, quando Leo scattò.

«Aspettate, faccio io.»

L’uomo corrucciò la fronte guardandolo mentre si arrotolava le maniche della camicia blu scuro che indossava quel giorno e si avvicinava al mio letto.

«Signore, non credo che…»

«Avete detto che dovremo mettergliela noi nei prossimi giorni, no? Tanto vale che insegnate anche a me, nel caso in cui Stevenson sia troppo occupato.»

Riuscii a scorgere l’occhiata che il maggiordomo lanciò a Leo, uno sguardo sarcastico col sopracciglio sollevato e la bocca storta in un mezzo sorriso, come se una simile ipotesi fosse oltremodo impossibile e Leo stesse solo cercando una scusa. Quella faccia buffa mi fece sorridere e lui se ne accorse, ricambiando prontamente il sorriso.

Leo si chinò su di me, cospargendosi le dita di unguento, poi poggiò una mano sulla mia caviglia per farmi stare ferma e il mio corpo, quello stupido corpo traditore, iniziò a sentire tremendamente caldo.

Agguantai con tutte le mie forze il copriletto, ben sapendo che sarebbe arrivato altro dolore, eppure quando le mani di Leo toccarono la mia pelle, furono incredibilmente delicate. Lo osservai affascinata mentre lui, con lo sguardo attento e gli occhi corrucciati, passava delicatamente la pomata su ogni punto della mia pelle.

Alla fine non so se per effetto della pomata o delle sue dita, ma il mio piede bruciava come se lo avessi messo in una brace ardente.

A quel punto Leo si fece perentoriamente passare le bende e, passo dopo passo, si fece spiegare dal medico come sistemarle. Quello fece male.

Quando arrivò a stringere l’ultimo pezzo di stoffa scattai, mordendomi l’interno delle labbra per non urlare nuovamente dal dolore e serrando le palpebre tanto forte da vedere le stelle.

Di nuovo, mi concentrai sul continuare a respirare, sulla sensazione del dolore che lentamente scemava, ma mi azzardai a riaprire gli occhi solo a operazione conclusa, quando sentii Leo e Stevenson ringraziare il dottore.

A corto di fiato, ringraziai anche io l’ometto che mi sorrise, raccomandandosi di non fare sforzi non necessari per alcun motivo per almeno tre o quattro settimane, dopodiché si congedò con un profondo inchino e uscì, scortato da Stevenson, lasciandomi sola con Leo.

«Come ti sei fatta questa ferita?» chiese, mentre lentamente tornava in posizione eretta, sovrastandomi e fissandomi intensamente.

Sospirai. Ero triste, stanca e arrabbiata a causa sua, non volevo in alcun modo dargli la soddisfazione di ricevere quella risposta, che comunque non gli avrei dato.

«Cosa ti importa?»

Si avvicinò di un passo, i pugni stretti lungo i fianchi, la mascella contratta.

«Rispondimi

Incrociai le braccia sul petto e provai a lanciargli l’occhiata più truce di cui credevo essere capace.

«Perché, sennò che fai, mi ignori?»

La sua mano scattò in avanti, nemmeno mi accorsi che l’aveva sollevata finché non la sentii agguantarmi per il mento e costringermi a sollevarlo.

«Ma mi pare stia funzionando, no?»

Aggrottai le sopracciglia, la rabbia che provavo verso di lui cresceva come un fiume in piena, incapace quindi di fermarmi, allungai le mani per cercare di spingerlo via, ma era come cercare di spostare un muro.

«È così che vuoi punirmi? Fingendo che non esista e godendo nel vedermi soffrire? Sì, ha funzionato,» urlai muovendo le mani freneticamente, provando a ferirlo in qualche modo, così da fargli provare in minima parte ciò che lui aveva fatto provare a me. «Ho passato tutta la notte a piangere grazie a te! Contento? Questo per aver scritto delle lettere!»

Ero isterica e alla fine, riuscii a graffiargli una guancia. Solo sentire la carne che si lacerava sotto le mie corte unghie mi riportò alla realtà e mi fece riacquistare un po’ di calma; tanto da accorgermi che per tutta la mia sfuriata, Leo non si era mosso, né aveva provato a reagire. Solo la sua espressione era mutata, adesso, sembrava di nuovo estremamente corrucciato.

«Non sono le lettere il problema, bimba.»

Adesso ero io quella che doveva sembrare estremamente accigliata. Lui sollevò entrambe le mani, circondandomi il volto e carezzandomelo lentamente, osservando attentamente ogni più piccolo particolare del mio volto. La rabbia nel mio corpo ribolliva sottopelle, avrei voluto colpirlo, avrei voluto ferirlo. Avrei voluto stringerlo a me e baciarlo.

«Sospettavo che non fosse Mary a scriverle, ma ne ebbi la conferma quando mi apristi la porta, quel primo giorno a Londra.»

Sorrise, un sorriso vero che gli illuminò tutto il volto e io rimasi incantata da quella vista; tremante, allungai una mano per carezzargli il graffio che gli avevo procurato e lo sentii emettere un basso mormorio d’apprezzamento, come un grosso felino che faceva le fusa, quando la mia pelle calda toccò la sua.

«Il modo in cui pronunciasti il mio nome in quel momento, un misto di terrore e felicità che non potrò mai dimenticare.»

Mi lisciò distrattamente i capelli con le dita, soffermandosi di quando in quando a studiare meglio qualche boccolo. Io, frastornata più che mai dai suoi gesti e dalle sue parole, mi aggrappavo all’unica cosa certa rimasta: lui. Mi lasciai andare contro il suo corpo, continuando a carezzargli la guancia e permettendogli di giocare con i miei capelli.

«Credimi, in tutto questo, quelle lettere non c’entrano. Non potrei mai punirti per qualcosa di così bello e importante.»

Ero sul punto di piangere dalla frustrazione, mi scostai dal suo corpo e cercai il suo sguardo, afferrandogli i polsi con le mani.

«Allora perché?» chiesi, la voce incrinata, sul punto di distruggersi esattamente come me. «Perché mi stai facendo questo?»

Rimase in silenzio per un lungo istante, osservandomi con attenzione; un istante in cui io credetti di impazzire.

«Quanti anni sono che non rispondi a tua madre? Quanto tempo è che chini la testa e lasci che la gente ci cammini sopra?»

Si avvicinò alla mia fronte, baciandola e sentii il mio cuore sussultare beato, mentre il mio cervello lavorava furiosamente per cercare di trovare un nesso logico tra le sue parole e le sue azioni.

«Quando ti ho chiesto delle lettere sapevo già la verità, tuttavia ti ho voluta mettere alla prova. Hai avuto paura e non sei riuscita a rispondermi, invece oggi l’hai fatto mi hai risposto a tono, sono così orgoglioso di te, piccola.»

Mi sembrava tutto estremamente assurdo e inutilmente complicato, eppure il mio intero corpo si tese eccitato e soddisfatto nel sentire le lodi di Leo, di vedere l’orgoglio nei suoi occhi. Sapere che era orgoglioso per qualcosa che io avevo fatto, anche se inconsciamente e solo per fargli un dispetto, mi rendeva immensamente felice.

Forse alla fine io ero più contorta di quanto non lo fosse lui con le sue idee.

Leo mi strizzò debolmente la nuca e si staccò da me, tornando a fissarmi serio.

«Ti farò soffrire molto, sì, ma così facendo imparerai a farti valere.»

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