Capitolo 12
“È strano come tutti in casa, a modo loro,
sembrino non notare la mia presenza.
Ogni tanto, fingo di essere un fantasma che
si aggira per le stanze,
così almeno mitigo un po’ la noia… e la
tristezza.”
“Quando tornerò in
Inghilterra ho intenzione di rapirti,
chiuderti in una stanza e
impedire al resto del mondo
di vederti. Sarai solo
mia, farò di te ciò che voglio.
Avrai tutte le attenzioni
che desideri.”
Dopo
la prima visita del dottore, a bussare alla mia porta erano arrivate un paio di
cameriere, che mi avevano aiutata a sfilarmi il vestito, indossare una camicia
da notte e mettermi a letto, chiedendomi più e più volte come mi sentissi e se
avessi bisogno di altro. In un primo momento trovai molto strano e un po’
imbarazzante tutte quelle attenzioni da parte loro, poi, mi ricordai che sarei
rimasta confinata in quel letto per giorni e che accanto a me avevo solo un
libro; un libro che avevo letto già molte volte e che conoscevo ormai a memoria.
Così le accontentai e chiesi loro se potevano farmi la gentilezza di andare in
biblioteca e portarmi qualche libro, non mi importava la tipologia – probabilmente
le due ragazze non sapevano leggere, non pretendevo certo che si mettessero a
cercare titoli specifici –, volevo solo degli scritti con cui passare il tempo
e delle candele da accendere quando avrebbe fatto buio.
Una
delle due, quella più loquace, bionda e dagli occhi nocciola, si inchinò e uscì
subito dalla stanza, lasciandomi in compagnia dell’altra ragazza, una piccola
rossa con il naso ricoperto di lentiggini e gli occhi verdi.
«Come
ti chiami?» domandai, per spezzare quel silenzio imbarazzante calato su di noi
una volta rimaste sole.
«Julie,
Contessa.»
Di
nuovo, un’altra persona che si riferiva a me con un titolo che non mi
apparteneva. Scossi la testa, decidendo che era una causa persa continuare a
correggere tutti quanti ogni volta, era molto meglio lasciare che mi
chiamassero come evidentemente Leo aveva detto loro di fare.
«Io
sono Desdemona, piacere di conoscerti e grazie per l’aiuto.»
Lei
arrossì vistosamente, iniziando ad agitare freneticamente le mani.
«Oh,
no, Contessa, non dovete ringraziarmi, è il mio lavoro.»
«Vero,»
concordai, sistemandomi a sedere meglio tra le lenzuola, «tuttavia ringraziare
è cortesia, quindi grazie a te e alla tua amica, come si chiama? Dovrò
ringraziare anche lei appena torna.»
Julie
sembrava parecchio inquietata dal mio comportamento, il rossore sulle sue
guance aumentò, e sono certa, se fossi stata più vicina sarei riuscita a vedere
le lentiggini risaltare su quel volto imbarazzato.
«L’altra
ragazza si chiama Abigail, ma vi prego, non dovete farlo. Siete troppo
gentile,» disse, muovendosi freneticamente per la stanza, cercando qualcosa da
fare. Alla fine, afferrò il vassoio con la mia colazione ancora quasi del tutto
intatta e fece per uscire.
«Julie,
aspetta.» La fermai che era già quasi fuori dalla porta, lei si voltò, con
un’espressione terrorizzata, io cercai di sorriderle, affabile.
«Su
quel vassoio dovrebbe esserci una fetta di dolce, potresti lasciarla qui e
portarmi una brocca d’acqua fresca per dissetarmi?»
Il
suo volto si illuminò, annuì energicamente e si affrettò ad allungarmi il
piattino col dolce di Lewis, poi inchinandosi più volte, uscì lasciandomi sola.
Sebbene capissi benissimo come si fosse sentita in quel momento, dopotutto io
non ero certo un cuor di leone quando dovevo parlare con qualcuno, tutta la
situazione mi strappò un sorriso. Pensare che Julie avesse paura di me era
veramente strano. Come se io potessi mai farle nulla.
Quando
Abigail tornò a bussare alla mia porta, fui sorpresa nel vederla entrare con un
piccolo carrello portavivande carico di libri e candele. La fissai stupita
mentre posizionava il tutto a pochi passi dal mio letto, sforzandosi non poco
poiché le rotelle si bloccavano sul tessuto del tappeto.
«Ecco
qua, Contessa,» esclamò soddisfatta e un po’ affannata. «Non sapevo proprio
cosa portarvi, quindi ho pensato “meglio abbondare”, no?» sorrise raggiante
mentre iniziava a sistemare le candele nel raffinato candelabro d’argento che
si era portata dietro.
«Così
almeno avete sicuramente più scelta, non volevo rischiare di afferrare qualche
libro noiosissimo o qualche trattato sulla matematica,» il suo volto si
corrucciò, improvvisamente seria, «siete già abbastanza malandata, non
infieriamo oltre.»
Risi
ben poco dignitosamente, era così bello avere attorno persone che sembravano
sul serio intenzionate a prendersi cura di me. In quel momento mi tornò in
mente Molly, il mio buonumore svanì, rimpiazzato da una profonda tristezza.
Stranamente, nonostante tutto, mi mancava la mia casa. Mi mancavano mio padre,
Lucas, Joseph e, ovviamente, Molly. Avrei voluto che fossero venuti tutti loro
al posto di mia madre.
«Qualcosa
non va, Contessa?» Abigail mi osservava attenta e apparentemente preoccupata.
«Oh,
nulla, un po’ di nostalgia di casa.» Inspirai, cercando di sorridere. «Grazie
mille per tutto quanto, Abigail.»
Lei
annuì, continuando a sistemare i libri sul portavivande per evitare che
cadessero al suolo.
«La
capisco, anche a me manca molto la mia famiglia. Ma, alla fine, voi potete
comunque tenervi in contatto, no?»
Aveva
ragione, nulla mi impediva di inviare una lettera a mio padre per chiedergli
notizie di casa.
«Mi
dispiace, la tua famiglia vive molto lontano?»
Gli
occhi della ragazza si rabbuiarono per qualche istante, come se,
all’improvviso, una cappa oscura di ricordi l’avesse inglobata.
«Oh,
sì,» mormorò, sempre con lo sguardo perso chissà dove, «sono molto lontani.»
Evidentemente
per lei non era un bell’argomento e, temendo di poterla offendere in qualche
modo, non dissi altro, limitandomi a mangiare il dolce mentre lei continuava a
sistemare i libri. Il silenzio venne rotto solo da Julie di ritorno con un
vassoio con sopra un bicchiere e la caraffa d’acqua.
Abigail
si scostò da vicino al letto per farle poggiare il tutto e io la ringraziai
sorridendo, di nuovo Julie arrossì e distolse lo sguardo, affrettandosi ad
avvicinarsi alla porta, seguita dalla bionda.
«Avete
bisogno di qualcos’altro, Contessa?»
Scossi
il capo congedandole, loro uscirono rapidamente, chiudendo la porta e
lasciandomi da sola.
Finii
di assaporare lentamente quella delizia di Lewis; la glassa era così dolce che
creava quasi dipendenza, l’impasto era soffice e c’era giusto una nota di
limone che dava quel contrasto aspro ma terribilmente delizioso. Più masticavo
più ne volevo. Mentre, sconsolata, mandavo giù l’ultimo boccone, mi appuntai
mentalmente che avrei dovuto assolutamente scoprirne la ricetta.
Le
successive due settimane trascorsero tra alti e bassi, mia madre non venne mai
a trovarmi ma, d’altra parte non mi aspettavo lo facesse, anzi, sospettavo che
nemmeno sapesse in che condizioni ero. La febbre, improvvisamente a metà della
prima settimana peggiorò, lasciandomi in uno stato di perenne dormiveglia, a
malapena mi accorgevo delle cameriere e di Stevenson che venivano a medicarmi
il piede, ma solo perché stringendo la fasciatura, ogni volta sentivo sempre un
gran dolore, quindi non potevo fare a meno di risvegliarmi di soprassalto.
Durante un breve momento di lucidità mi accorsi che c’era qualcuno che cercava
di farmi bere qualcosa, un rimedio contro la febbre, probabilmente. Io però non
avevo voglia di bere, ero così stanca, volevo solo dormire.
«Desdemona,
apri la bocca.»
Era
un ordine così secco e perentorio, non potei fare altro che ubbidire a quella
voce, schiusi piano le labbra e un denso liquido amarognolo mi scivolò sulla
lingua. Era terribile, niente di paragonabile alle buonissime torte di Lewis,
volevo sputarlo, ma una grande mano calda mi tappò le labbra prima che potessi
farlo.
«Ingoialo.»
Un
altro ordine a cui sapevo di dover obbedire, lo feci con grande sforzo e sentii
quel liquido schifoso scendermi giù in gola, potei giurare di sentirlo fin
dentro il mio stomaco.
La
grande mano si scostò dalle mie labbra e percepii una lenta carezza sulla
tempia.
«Brava,
bimba.»
Cercai
di sorridere in direzione di quella voce, ma l’oscurità mi inghiottì e caddi di
nuovo in un sonno tormentato.
Quando
finalmente la febbre passò, era quasi arrivata la fine della seconda settimana
di riposo forzato.
Nonostante
avessi dormito per buona parte di una settimana, mi sentivo terribilmente
stanca e debole.
Stevenson,
appena fui in grado di mangiare cibi solidi, si presentò alla mia porta all’ora
di pranzo accompagnato da Julie e Abigail, con una carrellata di pietanze che
avrebbero sfamato un esercito.
Io
sorrisi debolmente, affondata com’ero tra i cuscini.
«Stiamo
andando a sfamare le truppe?» chiesi debolmente, vedendolo che iniziava a
spostare i vari piatti e ad armeggiare con posate e bicchieri, mentre Abigail e
Julie mi aiutavano in silenzio a mettermi a sedere comodamente sul letto.
«Dovete
rimettervi in forze,» disse lui continuando a trafficare con il carrello.
«Sembra
più che vogliate mettermi all’ingrasso.»
Lui
si voltò e sorrise, allungandosi sul letto per poggiarmi in grembo il vassoio
con quello che sembrava essere l’antipasto.
Scoprii
di avere più fame di quel che credessi, anche se alla fine decisi di saltare il
secondo, preferendo arrivare subito al dolce. Quel giorno Lewis mi aveva
preparato delle deliziose frittelle di mele che assaporai con gusto, leccandomi
le dita poco signorilmente. Quando le due cameriere ebbero finito di rassettare
e Stevenson di riordinare i piatti sul carrello, lo vidi tornare a voltarsi
verso di me, chinando lievemente il capo in direzione dei libri, ancora
ammassati sul piccolo portavivande di legno.
«Gradite
che vi passi un libro? Nel caso, più tardi vi venga voglia di leggere?»
Annuii,
anche se sentivo il sonno tornare ad attanagliare le mie membra, potevo
comunque tenermi un libro vicino per ogni evenienza.
«Quale
di questi titoli gradireste leggere?»
Sbattei
le palpebre, incerta su cosa rispondere, fissai le varie costole dei libri
impilati ordinatamente uno sull’altro, senza riuscire a distinguere niente che
non fossero le rigide copertine.
«Uno
qualsiasi andrà bene, grazie.»
Il
maggiordomo si corrucciò, tuttavia non disse altro, afferrò il primo libro
della pila e me lo porse. Lo ringraziai gentilmente, poggiando il libro
sull’altro lato del letto, poi li congedai tutti e tre.
Volevo
rimanere sveglia un altro po’, giusto per godermi il canto degli uccellini
fuori dalla mia finestra, ma non appena sentii la serratura della mia porta
scattare, caddi addormentata.
Quando,
all’inizio della terza settimana, il dottore tornò a farmi visita, si
congratulò con me.
«Di
solito le signorine non restano mai ferme così a lungo, non capiscono che così
facendo aggravano solo i loro malanni.»
Annuii
comprensiva, immaginavo che per le altre ragazze della mia età, starsene ferme
a letto per lunghi periodi equivaleva in un certo qual modo, a morire, almeno a
livello sociale. Ma io non ero mai stata come le altre.
«Il
vostro piede sembra stare decisamente meglio,» annunciò una volta disfatta la
fasciatura; in effetti il piede era molto meno gonfio e il dito stava
riassumendo un aspetto quasi normale.
«Quando
pensate potrà tornare a camminare?» chiese Leo, fermo come sempre sullo stipite
della porta, con Stevenson rigidamente immobile accanto a lui.
«Oh,
a tal proposito, nel mio calesse ho lasciato un paio di stampelle per la
signorina, direi che se il piede non le fa troppo male, può già cominciare a
camminare appoggiandosi a quelle.»
Leo
lanciò uno sguardo a Stevenson e gli ordinò di uscire con un cenno del capo,
senza aggiungere altro, questi si dileguò oltre la porta per recuperare gli oggetti.
Fortunatamente
la visita andò bene, il dito se toccato mi faceva ancora sussultare dal dolore,
ma non come i primi giorni, quindi il dottore mi diede il permesso di compiere
dei brevi tratti con le mie stampelle, a patto di non poggiare mai del peso sul
piede leso e di non fare sforzi eccessivi.
Annuii
ringraziandolo e osservando affascinata le stampelle di legno che Stevenson era
andato a prendere per me.
Il
dottor Russell si congedò con un inchino, comunicandomi che sarebbe tornato a
controllarmi tra altre due settimane, poi uscì scortato dal maggiordomo.
Ancora
una volta, rimasi da sola con Leo. Lo guardai, speranzosa che anche questa
volta si avvicinasse a me, che si staccasse da quella porta e venisse tra le
mie braccia.
Ma
non lo fece, semplicemente dopo avermi dato una lunga occhiata, si voltò e
anche lui uscì. Senza aggiungere altro.
Sentivo
le lacrime già pronte a scendere, ma le scacciai con una scrollata di capo.
No,
non avrei pianto. Non mi sarei sentita triste per quello, non quando sapevo che
lo faceva per aiutarmi a superare le mie paure.
Ero
un po’ sconsolata, non sapevo se sarei mai riuscita a vincere i demoni che si
celavano nel mio passato e che, anche allora, mi impedivano di vivere una vita
normale, ma se Leo credeva in me, se avevo lui al mio fianco, allora potevo
almeno provarci.
Una
sera, dopo essere finalmente riuscita a cenare sul mio tavolino – con l’obbligo
di Stevenson di tenere però la gamba alzata –, e dopo aver finito l’ennesimo
libro, non sapevo proprio cosa fare. Non avevo sonno e Morfeo non sembrava
intenzionato a farmi visita in tempi brevi, così, decisi di rispolverare una
mia vecchia abitudine e farmi una passeggiata per il corridoio. Mi infilai le
pantofole e la vestaglia – entrambe cose che erano misteriosamente comparse
nell’armadio, stando a quanto affermavano Julie e Abigail –, afferrai le mie
fide stampelle infilandomele sotto le ascelle, e uscì dalla mia stanza per la
prima volta da quando, la sera del nostro arrivo, mi ci ero chiusa dentro in
lacrime. Sospirai lanciando uno sguardo al corridoio deserto ma perfettamente
illuminato dai candelabri sulle pareti. Come prima cosa, decisi di provare a
camminare fino alla portafinestra dall’altra parte del corridoio, giusto per
vedere quanto riuscivo a essere stabile.
I
primi passi non riuscii a coordinarli benissimo, ma, già arrivata a metà
corridoio, mi veniva molto più naturale spostare le stampelle in simultanea con
il mio piede sano e tenendo bene alzato quello infortunato.
Arrivata
alle scale che portavano al piano inferiore, udii distintamente del
chiacchiericcio animato e delle risate provenienti da qualche stanza di sotto.
Mi accigliai, c’erano ospiti in casa?
Troppo
curiosa per lasciar correre, iniziai lentamente a scendere la scala, cercando
di intuire da dove provenissero le voci e, soprattutto, sperando di capire
qualcosa di quello che stavano dicendo; il brusio però era troppo basso e
troppo animato per farmi distinguere alcunché, capii solo che i rumori
provenivano dalla mia sinistra.
Scesi
le scale e imboccai il corridoio che mi avrebbe portata più vicina alle voci.
Camminavo piano, cercando di attutire il rumore delle stampelle sul tappeto, il
cuore che mi batteva a mille per la curiosità e la certezza che non avrei
affatto dovuto trovarmi lì in quel momento.
Finalmente,
individuai la stanza da cui provenivano il vociare, l’uscio era socchiuso e una
lama di luce vi filtrava attraverso, illuminando fiocamente l’area circostante.
Mi avvicinai alla porta, insicura se fosse il caso o meno di osare fino in
fondo e sbirciare, col rischio poi di essere sorpresa.
«Parlare
con voi Leo è davvero impossibile!» una suadente voce di donna fu la prima che
udii distintamente, sembrava divertita e anche un po’ eccitata.
«Perché
lui non parla, preferisce fare ben altro, dico bene?» la risposta arrivò dalla
voce di un uomo, seguita da risate maliziose. Non riuscivo a capire quanti
fossero.
«Diteci,
Mary, è vero?»
Nella
stanza calò il silenzio e il mio cuore si gelò, fu quello, forse, a darmi il
coraggio di rischiare e sbirciare oltre la soglia.
Da
quel poco che riuscivo a distinguere, si trattava di un salottino: c’erano
alcune persone che non conoscevo ma che dagli abiti sembravano nobili, un paio
sedute su un basso divanetto mi davano le spalle, quindi non riuscivo a
scorgergli il volto, un ragazzo che sembrava avere la mia età, se ne stava in
piedi accanto al caminetto vicino alla porta e quindi potei discernere meglio i
dettagli del suo volto. Era un ragazzo ben piazzato, con spalle ampie e con
indosso una giacca azzurro scuro che nascondeva male il gonfiore dei suoi
muscoli, aveva il collo largo, una mascella squadrata ma non troppo
pronunciata, naso piccolo e dritto, labbra sottili, fronte non molto spaziosa,
portava i capelli castani tagliati corti ma con lunghi ciuffi che gli
scendevano fino a coprirgli gli occhi di cui non potevo vedere il colore. Il
resto degli occupanti della stanza era un mistero.
«Perdonatemi,
come?» la voce di mia madre arrivò dall’altra parte della sala, il che mi
spinse a cercare di cambiare posizione sulla stampella, per inclinarmi meglio e
riuscire a sbirciare oltre.
Inclinandomi
di molto, riuscii a distinguere la figura di mamma seduta su un divanetto,
accanto a una donna misteriosa, loro erano ancora più lontane, quindi riuscivo
a distinguere solo i contorni di entrambe. Mia madre però indossava un abito
verde chiaro che le avevo già visto in precedenza, quindi per esclusione
l’altra doveva essere quella di cui avevo udito la voce poco prima. Aveva dei
rilucenti capelli biondi – sospettavo perché nel mezzo vi avesse appuntato dei
gioielli, ma mi era difficile capirlo – e indossava un abito molto scollato
color blu notte, che sicuramente era splendido e le stava divinamente.
«Vi
ho chiesto,» riformulò la donna in blu, palesemente divertita, «se è vero che
il qui presente signor Fortescue preferisce di gran lunga rotolarsi tra le
lenzuola piuttosto che conversare.»
I
due tipi seduti di spalle ridacchiarono e io mi accigliai, nessuno dei due era
Leo e io non riuscivo a scorgerlo da nessuna parte, dov’era? Eppure era
sicuramente nella stanza con loro.
«Io
non saprei proprio, Duchessa.»
Oh,
una Duchessa, ecco perché mia madre
era così deferente e pacata.
La
donna rise di gusto, buttando leggermente la testa all’indietro e scoprendo di
più il collo, a favore di tutti i maschi lì riuniti.
«Dovremo
quindi forse domandarlo alla vostra misteriosa figlia?» il suo tono di voce era
sempre più divertito, mia madre invece da come si muoveva agitata sul
divanetto, pareva sul punto di scattare in piedi e fare una scenata delle sue.
«Mi hanno informata che la ragazza non si alza dal letto da settimane…» la duchessa
voltò il capo nella mia direzione e io indietreggiai spaventata, temendo di
essere stata scoperta.
«Leo,
cosa avete fatto a quella povera ragazza?»
Quella
domanda trasudava ilarità e i due uomini di spalle scoppiarono a ridere
sonoramente. Mi azzardai quindi a tornare vicino alla porta, per sbirciare
meglio.
«Siete
un animale, Fortescue!» urlò
divertito e ammirato uno mentre l’altro fischiava, applaudendo. E fu in quel
momento, che mia madre perse definitivamente la pazienza. La vidi scattare in
piedi come una molla e pestare furiosamente un piede a terra.
«Tutto
ciò è disgustoso,» sibilò rivolta alle persone riunite che ora la fissavano in
silenzio.
«Suvvia,
Mary, stiamo solo scherzando.» Cercò di rabbonirla la donna allungando un
braccio per sfiorarla, ma mia madre la scansò bruscamente. Io, che vivevo con
lei e sapevo quanto per lei fossero importanti l’etichetta, i titoli e la
società, classificai quel gesto come qualcosa di sconvolgente. Doveva essere
davvero turbata per comportarsi così davanti a una duchessa e ad altri nobili.
«Uno
scherzo di pessimo gusto, invero,» continuò mia madre, tremante di rabbia. «Nessuno si azzarderebbe mai a sfiorare
nemmeno con un dito quell’orrenda ragazza!»
La
sala cadde di nuovo nel silenzio, al punto che tutti avrebbero potuto udire
distintamente il rumore che fece il mio cuore quando cadde a terra. Ero stata
chiamata in altri modi in passato, ma almeno in pubblico mia madre cercava
sempre di mantenere una parvenza di contegno neutrale nei miei confronti, non
tanto per la mia sanità mentale, quanto per dare alla società l’illusione che
fossimo una famiglia quasi perfetta. Solo se qualche matrona iniziava a
prendermi in giro, allora si univa alla festa, facendo passare i suoi come
bonari rimproveri, quando invece sapevo benissimo che ogni sua parola era
studiata per farmi soffrire.
«Accidenti,»
esclamò infine l’uomo che poco prima aveva fischiato, «è davvero così brutta?»
Mia
madre tornò a sedersi del tutto calma dopo lo sfogo.
«Vi
dico che è orribile, raccapricciante e tremenda sotto ogni punto di vista,
venuta al mondo per tormentarmi. Credetemi, ho cercato di raddrizzarla per
anni, ma invano. Evidentemente il buon Dio non l’ha dotata nemmeno di un
cervello perfettamente funzionante.»
Una
stampella scivolò dalla mia presa e cadde a terra, producendo un tonfo sordo,
attutito solo in parte dal tappeto.
Con
le lacrime che mi pungevano gli occhi, mi chinai per raccoglierla, quando feci
per rialzarmi, la porta della sala si aprì e Leo spuntò sulla soglia.
Ci
fissammo per alcuni istanti, in silenzio, poi io mi rimisi faticosamente in
piedi e lentamente, iniziai a percorrere a ritroso il corridoio che mi aveva
condotta lì.
«Allora,
Fortescue, cosa c’è?» sentii chiedere a quella che doveva essere la voce del
ragazzo più giovane, ma Leo non rispose, sentii solo il tonfo della porta che
si chiudeva. Un rumore che mi fece forse più male delle parole di mia madre. In
realtà, riflettei, mentre arrivavo nell’atrio, non erano state solo le parole
di mia madre ad avermi sconvolta così tanto.
«Desdemona.»
Mi
bloccai con una stampella appoggiata sul primo gradino della scala, mi voltai
di scatto incontrando gli occhi attenti di Leo.
«Che
c’è?» chiesi, la voce rotta dalle lacrime ancora non versate, cercando di
ignorare il sussulto che il mio ingenuo cuore aveva fatto quando si era reso
conto che Leo mi aveva seguita. Lui mi si avvicinò, allungando una mano per
carezzarmi, ma io scostai la testa e ripresi a salire.
Sentii
i suoi passi dietro di me e cercai disperatamente di aumentare la velocità per
poter arrivare in camera prima che lui finisse di fare le scale, per potermi
chiudere dentro. Ovviamente era impossibile e, arrivati al corridoio della mia
camera, mi chiamò di nuovo.
«Cosa?!»
scattai voltandomi, arrabbiata e ferita. Lui rimase immobile nel corridoio.
«Non
avresti dovuto sentire quelle cose,» disse alla fine, e come era già successo
in precedenza, qualcosa dentro di me scattò di nuovo.
«Non
avrei dovuto sentirle, Leo? Ti do una
notizia allora: mia madre mi tratta così da tutta la vita!» risi amaramente,
appoggiandomi con tutte le mie forze alle stampelle. «Tu vuoi ignorarmi per
farmi imparare ad alzare la testa, ma indovina un po’ chi è che mi ha costretta
fin da bambina a tenerla bassa?»
Iniziai
a piangere, tuttavia non riuscivo a fermarmi, non ora che avevo trovato
finalmente il coraggio di urlare a qualcuno quello che ero stata costretta a
sopportare.
«Mi
torturava, Leo, psicologicamente e fisicamente! Se controbattevo, minacciava di
tagliarmi la lingua, se la guardavo storto, di cavarmi gli occhi. Quando facevo
qualcosa che per lei non andava bene mi graffiava con le unghie in posti dove
sapeva nessuno lo avrebbe notato, mi infilava gli aghi nella pelle, nelle
braccia, nelle gambe…» singhiozzai afferrandomi d’istinto le mani e
stringendole saldamente, «sotto le unghie.» Goffamente, mi strinsi le braccia
al petto, con le stampelle che premevano contro la mia carne. «Ho così tanta
paura di lei, Leo. L’ho avuta per così tanto tempo.»
Lui
in un attimo mi fu vicino, circondandomi e tirandomi contro di sé per
abbracciarmi.
«Non
devi più avere paura né di lei né di nessun altro, ti proteggerò io.»
Quello,
mi spinse ancora una volta ad allontanarmi da lui, lo scostai da me con una
spinta leggera, una spinta che lui avrebbe potuto ignorare, invece mi lasciò
andare e io potei sollevare il capo per guardarlo arrabbiata.
«Sì?
Come mi hai protetta stasera in quella sala?» tirai su poco elegantemente col
naso e mi mossi all’indietro, mettendo ancora più distanza tra i nostri corpi.
«Non è stata mia madre a ferirmi stasera, non più del solito almeno. Sei stato
tu.» Ripresi a piangere, silenziosamente, con meno impeto di prima, ma con più
dolore. «Posso sopportare di essere ignorata, l’ho sempre fatto.» Lo guardai
dritto negli occhi. «Ma perché non mi hai difesa? Perché non hai detto ai
presenti che mia madre stava mentendo?»
Lui
aveva la mascella serrata e gli occhi stretti in minuscole fessure, non mi
rispose e io scossi la testa, abbattuta.
«Dici
che vuoi proteggermi ma a me non sembra, se non mi fossi fatta scoprire
cos’avresti fatto?» titubai un istante, incerta se porre o meno quella domanda.
«Avresti iniziato anche tu a deridermi?»
Di
nuovo, nessuna risposta, mi voltai quindi, decisa a chiudermi in camera.
«Desdemona,»
mi chiamò di nuovo, stavolta non mi fermai, lo sentii affrettare il passo
dietro di me per raggiungermi ma ero già arrivata alla maniglia della mia
porta. «Desdemona, fammi parlare.»
«No,»
risposi secca, voltandomi a guardarlo. «Mi hai ferita, Leo, non avevi motivo
per farlo, ora come ora non voglio sentire le scuse che ti inventerai. Lasciami
in pace.»
Aprii
la porta ed entrai, lui si mise davanti, per cercare di impedirmi di chiuderla.
«Bimba,
ti prego…»
Esasperata,
scattai nuovamente. «Non ti voglio più vedere, vattene!» urlai, riuscendo finalmente a chiudere la porta. Per
sicurezza, chiusi anche a chiave.
Ero
distrutta, fisicamente e mentalmente, mi lasciai quindi scivolare lungo la
porta, troppo esausta per raggiungere il letto.
Per
tutto il tempo che rimasi lì e anche dopo, quando mi decisi finalmente a
spostarmi per tornare sotto le coperte, non sentii mai i passi di Leo
allontanarsi da davanti la mia porta.
---
Leggi dall'inizio
Prossimo capitolo
Commenti
Posta un commento