Capitolo 13
“Com’è la vita oltre oceano? Dev’essere
affascinante avere
a che fare con così tante persone diverse,
conoscere
le loro culture, le loro usanze. Che animali
ci sono?
Immagino siano diversi da quelli di qua, e
il cibo?
Mi piacerebbe essere lì.”
“Non sono bravo come te
con le parole, non
posso descriverti quello che mi chiedi. Un
giorno,
ti ci porterò, così potrai vedere con i tuoi
occhi
com’è vivere dall’altra
parte del mondo.
Ti porterò ovunque tu
voglia.”
La
mia quarta settimana di riposo forzata era quasi terminata e, anche se
fisicamente mi sentivo molto meglio, grazie alle cure di Stevenson, Julie e
Abigail, mentalmente stavo sempre peggio. Dopo la mia discussione con Leo non
mi ero più azzardata a uscire dalla mia stanza, preferendo ingannare il tempo
immergendomi totalmente nella lettura di qualsiasi testo mi passasse sottomano.
Alla sera, gli occhi mi bruciavano così tanto per lo sforzo che faticavo a
tenerli aperti e crollavo addormentata in poco tempo, era perfetto. Ma gli
incubi non mi lasciavano in pace, al punto che invece di sognare mia madre,
sognavo Leo.
Nel
sogno eravamo felici, gli correvo incontro, volevo baciarlo, volevo affondare
il viso nel suo petto e dimenticarmi di tutto e tutti. Lui protendeva le
braccia per prendermi e, finalmente, quando lo raggiungevo, la sua espressione
mutava. Tutto attorno a noi diventava nero e freddo, le sue mani mi stringevano
dolorosamente le spalle, i suoi occhi perdevano ogni colore, la sua bocca si
deformava in un ghigno malefico.
«Perché mai dovrei volere un
giocattolo rotto?»
Intorno
a noi, nell’oscurità che ci circondava, mia madre rideva, rideva istericamente
e io non riuscivo a liberarmi da quella presa, per quanto ci provassi, per
quanto urlassi, Leo continuava a guardarmi con la stessa espressione di
disgusto di mia madre.
Mi
svegliavo di soprassalto, gli occhi umidi di lacrime e la fronte madida di
sudore. In quei momenti, avrei voluto saltare in piedi e correre a cercare Leo,
per accertarmi che niente di quel sogno fosse vero, per nascondermi sul serio
nel suo abbraccio.
Ma
non potevo farlo, mi costringevo a non farlo, avevo preso una posizione in un
certo qual modo, potevo tollerare di essere ignorata, ma non che lasciasse mia
madre o qualsiasi altra persona sparlare di me alle mie spalle. Mi fidavo di
lui e ora sentivo che quella fiducia indiscriminata iniziava lentamente a
sbriciolarsi.
Mi
circondavo le gambe con le braccia, nascondendo il volto, non volevo che
accadesse, conoscevo Leo. Non potevo
credere che avesse agito intenzionalmente, non credevo nemmeno che mi avrebbe
mai derisa, ma proprio per questo aveva fatto così male.
Non
sapevo cosa pensare, quindi mi giravo e rigiravo nel letto, finché finalmente
non mi addormentavo per la stanchezza.
Anche
tra la servitù l’umore non era dei migliori, ogni volta che entravano li vedevo
sempre più ombrosi, sempre più assorti nei loro pensieri. Così, un pomeriggio
mentre Stevenson stava disponendo il mio pranzo sul tavolino, nel momento in
cui Julia e Abigail si occupavano del mio piede, decisi che era arrivato il
momento di sapere cosa stesse succedendo.
«Perché
avete quelle facce lugubri?» chiesi, guardando il maggiordomo, lui irrigidì la
mascella ma non rispose. Mi concentrai su Abigail e Julie che evitarono il mio
sguardo. Mi bloccai, possibile che sapessero della discussione che avevo avuto
con Leo? Possibile che fossero arrabbiati con me per quello che avevo fatto?
In
effetti facevano parte della sua servitù, e mi trovai a realizzare che, con
ogni probabilità, tutte le premure ricevute erano dovute ad un suo ordine.
Consumai
il mio pranzo in silenzio, troppo spaventata di scoprire se avessi ragione per
porre altre domande.
Quella
sera, mentre mi infilavo sotto le coperte, qualcuno bussò alla mia porta. Mi
accigliai, anche se riconobbi quei rintocchi sul legno come quelli di Abigail,
quindi saltellando mi diressi alla porta e girai la chiave.
La
serva mi osservava di sottecchi, col capo chino, sembrava… spaventata.
«Posso…
posso entrare, Contessa?»
Mi
scostai per lasciarla passare, richiudendo la porta dietro di lei.
Abigail
camminò fino al centro della stanza con i pugni serrati, poi si voltò di scatto
a fissarmi.
«Voi…
non lo sapete, ci è stato ordinato di non dirvelo, ma dovete sapere, dovete.»
Zoppicando,
mi avvicinai a lei, il cuore che iniziava a battere furiosamente, cosa stava
succedendo di così grave?
«Cosa
devo sapere, Abigail?»
Lei
si guardò attorno, come se si sentisse disorientata e non sapesse dove si
trovava, poi tornò a puntare i suoi occhi nocciola su di me.
«Il
padrone… ecco, non è in sé.» Iniziò a camminare avanti e indietro nella stanza
mentre io mi appoggiavo a una colonna del baldacchino per sostenermi meglio.
«Lui… non fa che bere, Contessa.» La voce di Abigail si incrinò leggermente.
«Ogni giorno è sempre peggio, non l’avevamo mai visto così: urla, lancia gli
oggetti, fa a pugni con chi prova a farlo ragionare! È una bestia rabbiosa.»
Si
fermò, di nuovo al centro della stanza e tornò a puntare i suoi occhi pieni di
lacrime nei miei. «Vostra madre è andata via.»
«Come?»
La mia voce risultò strana persino alle mie orecchie, la testa mi vorticava
così furiosamente che ringraziai di essere appoggiata al letto. Non riuscivo a
immaginarmi il Leo che Abigail mi stava descrivendo, o meglio, non volevo.
La
ragazza annuì con enfasi.
«Ieri
mattina. È partita con la Duchessa dopo che il padrone le ha sbraitato contro.»
La
ragazza si tappò le orecchie con le mani, come se quelle urla risuonassero
ancora nella sua mente, tremende e furiose.
«È
stato così spaventoso, per un attimo abbiamo creduto tutti che il padrone
sarebbe saltato al collo di vostra madre, ammazzandola.»
Francamente,
non mi sarebbe dispiaciuto poi molto, in quel momento ero più preoccupata per
le condizioni di Leo.
Raggiunsi
Abigail e strinsi le sue mani nelle mie.
«Grazie
per avermelo detto. Lui dov’è adesso?»
Lei
sgranò gli occhi, colsi un profondo terrore in quello sguardo.
«Oh,
Contessa no, non dovete andare da lui, non dovete vederlo, è così ubriaco, così
furioso, potrebbe uccidervi con una sola mano!»
Nonostante
tutto, mi ritrovai a sorridere… no, non Leo.
Dovetti
giurarle che non sarebbe successo niente e garantirle che se mi fossi sentita
in pericolo sarei corsa via, affinché mi rivelasse che Leo era chiuso nelle sue
stanze dalla sera prima.
Sospirai,
ringraziandola ancora per essersi confidata con me.
«Puoi
rimanere qui dentro finché non ti sarai calmata, io ora salgo da lui. Se vuoi,
puoi chiuderti dentro.»
Lei
lanciò una strana occhiata alla parete dall’altra parte del mio letto, come se
temesse per qualche oscuro motivo di veder sbucare Leo da quell’angolo e
aggredirla in quello stesso istante, poi alla fine annuì.
«Grazie
per l’offerta, Contessa, ma penso che andrò da Julie, era parecchio turbata.»
Tra
le due era Abigail la più forte, quindi non dubitavo che l’altra fosse la più
sconvolta da tutta quella situazione.
Inspirai
profondamente e mi spostai verso il mio lato del letto, dove tenevo appoggiate
le stampelle.
Abigail
mi tenne la porta aperta e mi accompagnò per parte del corridoio, poi, giunte
davanti alle scale, lei lanciò un’occhiata titubante a quella che conduceva ai
pani superiori.
«Volete…
volete che vi accompagni?»
Scossi
la testa, cercando di sorridere nel modo più caloroso possibile.
«Non
serve, grazie, credo di riuscire a trovare da sola la strada. Vai pure da Julie
e consolala anche da parte mia.»
La
ragazza rimase ferma un istante, tormentandosi le mani, chiaramente indecisa su
cosa fare, poi di slancio mi si buttò addosso, abbracciandomi. Sgranai gli occhi,
sorpresa da quell’inaspettata dimostrazione di affetto. Non potendo restituire
l’abbraccio a causa delle stampelle, riuscii solo a darle qualche pacca
affettuosa sulla schiena.
Quando
si staccò, non c’era più traccia di turbamento sul suo volto, sostituito da un
debole sorriso.
«Dirò
a Lewis di preparare il dolce più buono che conosce, quindi vedete di uscire
sana e salva da quella stanza.»
Risi
annuendo, mentre mi voltavo per iniziare a salire la scalinata.
«Ora
che lo so, stai certa che non permetterò a Leo di farmi nulla, non posso
perdermi un dolce di Lewis.»
La
udii ridacchiare debolmente mentre anche lei iniziava a scendere le scale, da
quel momento ero sola.
Salii
più in fretta che potei la rampa che portava al secondo piano, attraversai il
corridoio senza nemmeno guardarmi attorno, poi ripresi a salire l’ultima rampa
di scale.
Arrivata
quasi in cima iniziai a sentire i rumori… e le urla. Mi affrettai e quando misi il piede
sull’ultimo gradino, avevo il fiatone.
La
scalinata finiva su un piccolo pianerottolo con un’unica porta che era
socchiusa.
Mi
avvicinai, spingendola con la spalla per entrare e mi bloccai.
Nella
stanza regnava il caos: fogli gettati alla rinfusa ovunque, la scrivania di
legno massiccio ribaltata su un lato, un’anta di una delle portefinestre che
davano sul terrazzo era stata rotta e i vetri di quasi tutte le finestre erano
incrinati, vestiti sparsi su ogni superficie e bottiglie di liquore vuote. Vidi
vorticare nell’aria anche delle piume che sembravano provenire da qualche
cuscino, nella stanza aleggiava una puzza orribile per nulla mitigata dal
fresco venticello che entrava dalle finestre aperte.
Poco
più avanti rispetto a dove mi trovavo io, c’era Stevenson, mi dava le spalle,
troppo concentrato sulla figura di Leo che, invece, se ne stava stravaccato su
una poltroncina davanti al camino spento, per accorgersi di me.
«O
mi porti altro rum o ti togli dai piedi, James.»
Stevenson
si avvicinò di un passo, i pugni stretti lungo i fianchi.
«Il
tuo comportamento è ridicolo Leo e, francamente, ci stai facendo preoccupare
tutti.»
Leo
scaraventò al suolo la bottiglia vuota che aveva tra le mani.
«Non
me ne frega un cazzo! Ora togliti di torno.»
Il
maggiordomo non si lasciò intimorire dal ringhio minaccioso di Leo e si avvicinò
di un altro passo.
«Leo,»
iniziò con tono più gentile, «qualsiasi cosa sia successa, sicuramente si
risolverà, sono sicuro che…»
«Sta’
zitto, James, o giuro sull’anima di tua madre che ti butto giù da quella merda
di terrazza.»
Stevenson
si bloccò in mezzo alla stanza e incrociò le braccia al petto.
«Puoi
provarci, spocchioso stronzo che non sei altro, nelle tue condizioni non
riusciresti nemmeno a sfiorarmi.»
Leo
istigato da quelle parole scattò in piedi e, in quel momento, i nostri occhi si
incrociarono. Seguendo la direzione del suo sguardo, anche Stevenson si voltò e
sussultò nel vedermi ferma sulla soglia.
«Signorina,
cosa ci fate qui? Venite, vi riaccompagno nella vostra stanza.»
Il
maggiordomo si avvicinò a me, pronto a portarmi via da tutto quanto, la mia
ultima occasione di ripensamento. Scossi la testa, sorridendo debolmente.
«Sono
venuta per parlare con Leo.»
Stevenson
parve sconvolto, si guardò alle spalle, dove c’era ancora Leo fermo immobile
accanto al camino, e poi tornò a guardare me.
«Signorina,
credo che dovreste davvero…»
«Ha
detto che vuole parlare con me, vattene, James.»
La
voce biascicante di Leo avrebbe dovuto suonare più minacciosa, ma i fumi
dell’alcool distorcevano tutto, rendendolo solo vagamente aggressivo.
Il
maggiordomo non lo ascoltò, mi fissò intensamente negli occhi.
«Siete
sicura?»
Annuii
molto lentamente, tornando poi a posare il mio sguardo sulla figura all’altro
capo della stanza.
«Se
avete bisogno di me, urlate, sarò in fondo alla scalinata,» pronunciò la frase
a voce alta e chiara, in modo che anche Leo potesse recepirla, poi con un
inchino, uscì chiudendosi la porta alle spalle.
«Sei
venuta per continuare a insultarmi?» scattò subito Leo, tornando a sedersi con
un tonfo sulla poltrona imbottita, mi avvicinai a lui lentamente.
«Mi
hanno detto che ti stavi comportando in modo più folle e preoccupante del
solito.»
Arrivai
dietro la poltrona e la aggirai lentamente, per potergli parlare guardandolo in
faccia, stando attenta a non poggiare i piedi nudi su nessun coccio. Lui
grugnì, osservandomi mentre mi piazzavo davanti a lui.
«E
secondo te di chi è la colpa?»
Inclinai
la testa per studiare meglio i suoi lineamenti. Aveva profondi cerchi neri
sotto gli occhi iniettati di sangue, il labbro inferiore era spaccato e una
profonda ruga gli solcava la fronte.
«Direi
tua.»
A
quelle parole, scattò in piedi afferrandomi saldamente per un braccio e
fissandomi torvo. Da quella distanza, sentivo il tanfo dei liquori che gli
impregnava i vestiti e l’alito, e iniziò a girarmi la testa.
«Tu
accusi e giudichi senza dare alle persone il tempo di spiegarsi, credi di
averne il diritto solo perché hai subito qualche angheria da piccola? Credi di
essere l’unica con un passato di merda? Beh, non è così, principessa, benvenuta
nel club.»
Serrai
la mascella, assottigliando lo sguardo.
«Benissimo,
allora spiegami perché non mi hai difesa.»
«Lo
stavo facendo!» mi urlò in faccia, stringendomi ancora di più il braccio. «Se
invece di farti venire una crisi e scappare fossi rimasta a spiare altri dieci
secondi mi avresti sentito! Esattamente come ogni altra cazzo di volta in cui è
successo.»
Gli
occhi mi si riempirono di lacrime, sentivo il cuore pulsarmi nelle orecchie, la
testa girarmi, ma non per l’odore di alcol.
«Altre
volte?»
Lui
grugnì seccato, scostandosi da me e iniziando a camminare per la stanza,
un’abitudine che evidentemente condividevamo in molti sotto quel tetto.
«Ogni
cazzo di giorno. Ogni. Singolo. Giorno. Da quando siete arrivate, tua madre non
ha fatto che calunniarti. Chiedilo a chi vuoi, chiedi a James di raccontarti di
quel pomeriggio in cui se n’è uscita dicendo che eri una bugiarda a cui piaceva
raccontare un sacco di storielle per commuovere i pochi stolti che ti stanno a
sentire. Così ti dirà che la mia risposta era stata, che per quanto ne sapevo
di infido bugiardo, in casa, c’era solo lei.»
Mi
si strinse il cuore. I sensi di colpa iniziarono a rosicchiarmi la coscienza,
dolorosamente, inesorabilmente. Gettai le stampelle a terra e zoppicando, mi
andai a buttare tra le braccia di Leo, incurante di poter calpestare vetri o
altri oggetti, volevo solo stargli vicino; lui mi afferrò e strinse a sé come
se fossi uno scoglio in mezzo a un mare in tempesta.
«Leo,
scusami,» singhiozzai tra le lacrime, nascondendo il volto nella sua camicia,
affondandoci nella speranza di sparire per sempre dentro di lui. Una delle sue
grandi mani iniziò a carezzarmi il capo. «Perché non sei venuto a dirmelo?»
chiesi sollevando il volto per cercare il suo. «Perché hai fatto tutto questo?»
La
ruga sulla sua fronte si fece ancora più marcata, i suoi occhi divennero
tristi.
«Perché
eri così arrabbiata con me. Credimi, in quel momento stavo solo aspettando
l’occasione opportuna per sbatterti contro un muro e costringerti a tacere e ad
ascoltarmi, ma tu eri così arrabbiata, così triste e, inaspettatamente, accusavi me per tutto quello. Non… non
riuscivo…» si fermò un istante, lo sguardo perso nei ricordi di quella sera.
«Poi hai detto che non volevi più vedermi.»
Sussultai,
come se mi avesse colpita con uno schiaffo, quando realizzai che tutto quello,
era effettivamente colpa delle mie parole incaute. Lo avevo ferito, lo avevo
ferito al punto che persino lui aveva avuto difficoltà a reagire come suo
solito. Gli avevo detto di starmi lontano e lui l’aveva fatto, iniziando ad
autodistruggersi.
Possibile
che una banale ragazza come me, avesse così tanto potere su quell’uomo?
Le
lacrime sgorgarono di nuovo, copiose e calde, non sapevo che dire, non riuscivo
a trovare niente che sembrasse adatto in quella situazione, lui mi fece
sollevare il viso, asciugandomi le guance con le dita.
«Quando
fui ferito, ricorderai che stavo per morire ma non solo, io volevo morire. Non
avevo niente che mi spingesse a lottare, nulla che rendesse la mia vita
meritevole d’essere vissuta. Poi è arrivata la tua lettera, così inaspettata,
così dolce, così luminosa da rischiarare perfino gli oscuri abissi in cui ero finito.»
Mi circondò il capo con le mani, stringendomi nuovamente a sé. «Con te al mio
fianco posso conquistare il mondo. Senza di te non sarei più niente.»
Io
provavo esattamente le stesse cose. Potevo fare qualsiasi cosa se sapevo che
lui era lì, che mi supportava, che credeva in me. Senza di lui, tornavo a
essere l’impaurita bambina di otto anni che la madre si divertiva a tormentare.
Gli circondai i fianchi con le braccia, cercando di stringerlo con la stessa
intensità con cui lui stava stringendo me.
«Mi
dispiace,» mormorai di nuovo, affondata nel suo caldo abbraccio.
«Da
quando siete arrivate, non ne va bene una.» Sospirò, ma sembrava una frase più
rivolta a se stesso che a me. «Tua madre è riuscita a rovinare tutti i piani
che avevo in serbo per te. Credimi, se non se ne fosse andata da sola, l’avrei
buttata fuori io molto presto, anche senza sapere quello che ti ha fatto.»
Sorrisi,
sollevando di nuovo il capo per potermi perdere nei suoi intensi occhi
acquamarina.
«Non
sapevo quelle cose sul suo conto, Desdemona.» La sua voce era fredda e calma
mentre pronunciava quelle parole. «Tua madre la pagherà cara.»
Uno
strano senso di felicità mi pervase e strofinai inconsciamente la guancia
contro la sua camicia scura.
Ero
stata una sciocca a non fidarmi di Leo, avrei dovuto sapere che non avrebbe mai
permesso a nessuno di prendersi gioco di me. Ero felice di sapere che in un
certo senso, io ero dipendente da lui tanto quanto lui lo era da me, che
prendevamo in gran considerazione ogni frase detta dall’altro. Sembrava così
perfetto, eravamo le due facce della stessa medaglia. E ora, finalmente
riappacificati, potevo stringermi a lui e lasciarmi cullare dalle sue forti
braccia.
«Ovviamente,»
mormorò roco, sollevandomi con una mano il mento, «non pensare che non ti
punirò per quello che hai fatto.»
Deglutii
a vuoto, ipnotizzata dai suoi occhi ora straripanti di lussuria che sembravano
capaci di denudarmi; un brivido di desiderio mi corse lungo la schiena. Non
vedevo l’ora di scoprire quale punizione mi aspettava.
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