Capitolo 14
“Se ti chiedessi di
inginocchiarti per me, lo faresti?”
“Sì.”
Leo
decise di riaccompagnarmi in camera. Rimasi un po’ delusa da quella sua
decisione, ma la accettai.
«Sono
troppo ubriaco, ora,» mormorò strusciando il volto tra i miei capelli, mentre
continuavamo a rimanere saldamente abbracciati l’uno all’altra.
«Non
sono nemmeno certo che tu sia davvero qui.»
Il
cuore nel petto mi lanciò una fitta, una fitta molto dolora, e non potei fare
altro che stringere maggiormente Leo a me, sperando di cancellare via la
tristezza che sentivo nella sua voce e i dubbi nel suo cuore. Respirai profonde
boccate del suo odore, l’alcool rendeva tutto terribilmente insopportabile, ma
sotto, sotto quel tanfo, riuscivo a percepire una debole traccia di sudore e di
quello che era il suo normale profumo, non che ne usasse, ma avevo notato che
Leo emanava naturalmente una fragranza buonissima di cui sapevo sarei diventata
presto dipendente, esattamente come già lo ero di lui.
Alla
fine, Leo si staccò da me, seppur con molta riluttanza, e andò a recuperare le
mie stampelle, tornando a voltarsi verso di me, lo vidi accigliarsi mentre mi
fissava i piedi.
«Dove
sono le tue pantofole?»
«Ah…»
mi guardai attorno, imbarazzata, «io non sono abituata a indossarle, giro quasi
sempre scalza.»
Rapido,
mi tornò di fronte e senza fare il minimo sforzo, mi sollevò con una mano sola,
passandomi il braccio sotto al sedere e posizionandomi sul suo fianco, così da
poter portare le stampelle con l’altra mano. Imbarazzata e disorientata dalla
mossa, lanciai un gridolino sorpreso, aggrappandomi al suo collo.
«Cammini
scalza in una stanza piena di cocci? Non ci pensi alla tua incolumità?» grugnì
lui severo, incamminandosi verso la porta. Sorrisi, carezzandogli con la punta
delle dita la cortissima ricrescita dei capelli alla base della nuca.
«Ero
troppo preoccupata per te, figuriamoci se potevo badare a simili sciocchezze.»
Lui
si limitò a grugnire ancora, ma sapevo che la mia risposta lo aveva reso
felice, lo capivo dal luccichio che gli vedevo riflesso negli occhi e non potei
fare a meno di sorridere, poggiando la testa sulla sua spalla e sospirando
beata, lasciandomi trasportare giù per le scale.
«Sicuro
di farcela?» chiesi a metà rampa, giusto perché avevo voglia di sentire ancora
il suono della sua voce irritata.
«Metti
in dubbio la mia forza, piccola? Accidenti, pensavo di averti istruita meglio,
dovrei metterti giù e punirti adesso per tanta insolenza.»
Ringraziai
che in quel momento non potesse vedermi in faccia, perché ero certa di essere
arrossita terribilmente.
«Magari
voglio essere punita,» mi scappò dalle labbra, fu poco più che un sospiro, ma
bastò. Leo si bloccò, stringendo la presa attorno alle mie gambe e voltò
lentamente la testa nella mia direzione.
I
suoi occhi chiari erano leggermente sgranati e brillavano, come se non credesse
a quello che aveva appena udito ma, allo stesso tempo ne fosse immensamente
felice. Mi bruciavano le orecchie e sentii il bisogno di abbassare il capo per
distogliere lo sguardo, mentre le mie mani, strette ancora attorno al suo
collo, iniziavano a sudare.
«Ehi,
no, guardami,» mi incitò lui, chinando il capo verso il mio e dandomi una
spinta gentile col naso. «Non ti nascondere da me, mai.»
Annuii,
riportando con grande sforzo gli occhi sul suo volto e ricevendo in cambio un
piccolo sorriso. «Vorrei divorarti in questo preciso istante,» mormorò roco,
poggiando la fronte sulla mia. «Vorrei sbatterti contro quel muro e prenderti
violentemente, soffocando le tue urla con i miei baci. Vorrei piegarti su
questi gradini e prenderti a quattro zampe… e tu ne adoreresti ogni istante,
vero? Come una brava cagnolina in calore, ti godresti ogni singolo momento,
ogni mio violento affondo nel tuo piccolo corpo, mi supplicheresti per averne
di più.»
Tremavo,
avevo la gola secca e una smania apparentemente insaziabile si era accesa in
me, esattamente come quando leggevo le sue lettere, solo che sentire quelle
cose dette da lui, sapere che potevano succedere sul serio… gemetti muovendo
inconsciamente il mio bacino, cercando un po’ di sollievo per quel fuoco che
stava divampando.
«Sì,»
sospirai alla fine, senza mai distogliere gli occhi dai suoi, «lo adorerei.»
Leo
ringhiò, un rumore basso e gutturale, che mi scosse nel profondo, sembrava un
leone in gabbia, che non mangiava da settimane, a cui era stata messa davanti
una preda succulenta. Lui aveva fame e io volevo essere mangiata.
«Hai
bisogno di una mano, Leo?» la domanda di Stevenson arrivò dal fondo della
scalinata, spezzando l’incantesimo e facendoci interrompere il contatto visivo.
Il maggiordomo se ne stava fermo con le braccia incrociate dietro la schiena,
con un sorrisetto sornione stampato in faccia.
«Levati
di mezzo, James, riesco a portarla da solo,» ringhiò adirato Leo, riprendendo a
scendere i gradini rapidamente. Stevenson ci osservò attentamente e, quando
arrivammo alla sua altezza, allungò le mani verso di noi.
Istantaneamente,
Leo ruotò il busto per allontanarmi dall’altro, ed emise un leggero ringhio minaccioso.
Mi si mozzò il fiato in gola tanto fu veloce e repentino il movimento, dovetti
aggrapparmi stringendomi ancora di più al suo collo per non sbilanciarmi
all’indietro. Il maggiordomo, però, non si lasciò intimorire da quel palese
atteggiamento aggressivo, anzi, lo fissò con un’espressione ancora più
divertita e un sopracciglio sollevato a mo’ di scherno.
«Volevo
solo prendere le stampelle.»
Leo
sembrò pensarci seriamente su per qualche istante, poi, con un grugnito
stizzito, gli passò gli oggetti. Liberato il proprio padrone da
quell’intralcio, con un inchino palesemente plateale, ci invitò a precederlo.
Leo
mormorò qualcosa di incomprensibile e digrignando i denti continuò a scendere
le scale, fino ad arrivare al secondo piano. Mentre procedevamo lanciai
un’occhiata a Stevenson da sopra la spalla di Leo, lo vidi sorridere indicando
con un gesto del mento il mio accompagnatore, poi sollevò gli occhi al cielo
scuotendo la testa.
Ridacchiai
e Leo ne approfittò per smuovere il braccio su cui ero seduta, facendomi
sobbalzare.
«Non
dargli troppa confidenza, quello è un bruto,» mi ammonì severo mentre
scendevamo anche la seconda rampa di scale, dietro di noi, sentii Stevenson
ridacchiare senza aggiungere altro.
Ero
curiosa di scoprire cosa ci fosse tra di loro, più che servo e padrone, i loro
sembravano i tipici discorsi e atteggiamenti di una coppia di vecchi amici che
ormai conoscevano i peggiori segreti uno dell’altro. Se a quello poi, sommavo
il fatto che Stevenson non sembrasse né tantomeno agisse come un normale
maggiordomo, il mistero si infittiva e di conseguenza aumentava anche la mia
curiosità. Avrei voluto chiederlo subito a entrambi, ma Leo mi sembrava troppo
ubriaco e concentrato sul… beh, sul non saltarmi addosso nel bel mezzo del corridoio
davanti a un testimone, per potermi rispondere chiaramente, e sapevo bene che
Stevenson gli era troppo leale per dirmi qualcosa senza che lui gliene avesse
dato il permesso.
Arrivati
davanti alla mia camera con la porta ancora aperta da quando ne ero uscita poco
prima con Abigail: Leo mi poggiò delicatamente a terra, sul tappeto. A
malincuore, fui costretta a staccarmi dal suo collo e dal calore del suo corpo,
un senso di abbandono si fece lentamente strada in me, se solo Leo me l’avesse
permesso, mi sarei arrampicata di nuovo sul suo possente e caldo corpo senza
pensarci due volte per non lasciarlo andare mai più, ma proprio in
quell’istante si allontanò impercettibilmente, quasi intuendo quali fossero i
miei pensieri.
«Domani,»
disse scrutandomi attentamente, «faremo colazione insieme.»
Io
rimasi un po’ sorpresa da quell’annuncio inaspettato, tuttavia annuii,
sorridendo.
Lui
fece un cenno brusco col capo e si voltò di scatto, poi senza nemmeno augurarmi
la buona notte, si allontanò svelto lungo il corridoio, sparendo velocemente
dalla mia vista. Guardai Stevenson e lui scosse divertito il capo, passandomi
le stampelle con un lieve inchino.
«Perdonatelo,
Contessa, è stato cresciuto dai lupi
quello.» Poi si chinò impercettibilmente verso di me, abbassando un poco il
tono della voce. «Voi siete troppo bella e lui troppo ubriaco, cercate di
capirlo.»
Sgranai
gli occhi, meravigliata. Era una cosa che non mi aveva mai detto nessuno, e io
non credevo di esserlo, quindi le parole di Stevenson mi lasciarono enormemente
confusa e imbarazzata. Lui non parve accorgersene e dopo avermi augurato la
buona notte, si avviò lungo il corridoio, sparendo nella stessa direzione in
cui era sparito Leo. In quel momento, ferma sulla porta della mia stanza, non
potevo fare a meno di domandarmi se le parole dell’uomo fossero vere o avesse
solo cercato di farmi un complimento. In tutta la mia vita nessuno aveva mai
detto qualcosa di carino sul mio aspetto – forse mio padre una volta quando
avevo più o meno dieci anni, ma non ne ero nemmeno tanto sicura, forse l’avevo
sognato – e alla fine io stessa mi ero convinta di non essere niente di che, se
non addirittura brutta per i canoni della società. Aggrottai la fronte,
perplessa. Se ero brutta perché Leo era così preso da me? Forse per lui
l’aspetto non importava? Dopotutto, ci eravamo scritti senza vederci per anni,
i nostri sentimenti derivavano da qualcosa di più profondo.
Poi
mi colse un grosso sbadiglio e decisi di tornare in camera, quando la mia mano
volò verso la chiave per dare la mandata, mi ricordai che non dovevo più farlo.
Mia madre non era più tra quelle mura. Sorrisi contenta mentre mi infilavo
rapidamente sotto le lenzuola, mentre mi chiedevo cosa fosse successo il giorno
prima da costringerla a partire così, e con una duchessa che a stento
conosceva. Sospirando serenamente mi voltai, ripromettendo a me stessa che
durante la colazione avrei chiesto a Leo.
Sam
è impaziente, vuole il suo nuovo trofeo e lo vuole subito. Ma, stavolta, ne ha
scelta una troppo furba, troppo scaltra. La sua fame l’ha portato ad essere
avventato, adesso deve muoversi con cautela per ottenere ciò che vuole, senza
farsi scoprire. Non può permettersi errori, non questa volta, non con lei. Già
una volta ne ha commesso uno, troppo incauto e distratto, ha lasciato che
qualcuno lo sorprendesse. Non si esporrà più così tanto. Ma la sua fame rischia
di tradirlo, rischia di diventare troppo impaziente, ha bisogno di cibarsi, di
placare quel bisogno almeno in parte. Ha bisogno di un nuovo trofeo, prima di
tornare a puntare lo sguardo sul suo vero obbiettivo, quello che, ne è certo,
lo calmerà per molto tempo.
Sam
si costringe a uscire una notte, di solito non si muove così avventatamente, ma
non ha altra scelta. Il cielo è scuro, né luna né stelle brillano quella notte,
il momento migliore per agire indisturbato anche nel bel mezzo di una città
come quella. C’è odore di festeggiamenti nell’aria, non dovrebbe essere troppo
difficile trovare una giovane da fare sua quella notte. Le ombre lo avvolgono,
lo nascondono lasciandogli il tempo di studiare le strade, di riflettere su
quale mossa compiere, sul prossimo passo da fare. Non gli sono concessi errori,
non quando è così esposto, non quando c’è in gioco così tanto. La sua vera
preda lo aspetta e lui, ha tutta l’intenzione di gustarsela lentamente.
Rasenta
i muri, sta lontano dalle strade principali percorrendo solo quelle laterali e
malamente illuminate, osserva però il viavai sulle grandi vie, cerca una preda
adatta a diventare il suo antipasto.
Sente
un orologio in lontananza battere due rintocchi, cammina ancora, deve trovare
qualcuno quella notte o al suo perfetto piano mancherà un tassello, l’elemento
fondamentale che gli garantirebbe la riuscita: il suo autocontrollo. Digrigna i
denti, la fame lo acceca, lo fa sudare freddo, lo fa pensare sempre meno
lucidamente ogni secondo che passa, si sente quasi soffocare, potrebbe anche
morire quella notte se non trovasse qualcuno di cui cibarsi. Quasi gli pare di
sentire, nella sua memoria, l’eco lontano di urla e pianti disperati, è quel
ricordo che lo sprona a continuare la ricerca, il suo obbiettivo ben impresso
nella mente: il suo nuovo trofeo da cacciare e di cui banchettare.
Ormai,
i vicoli bui sono finiti, ci sono solo abitazioni private con immensi giardini
in quella zona, ne costeggia una, decidendo di passarvi dietro e, finalmente, i
suoi occhi puntano qualcosa. Luci, risate, musica, sembra il luogo perfetto in
cui cercare. Si avvicina, rimanendo nascosto tra le ombre, alla casa da cui
sente provenire tutti quegli schiamazzi, tutta quella voglia di vivere. Osserva
attentamente le persone all’interno che parlano, che ridono, che ballano,
nessuno sa di essere in pericolo, nessuno sa che quella notte, potrebbe anche
essere la sua ultima notte. Sam scalpita, osserva sempre più rapidamente ogni
volto, ogni sorriso, gliene serve uno adatto. Il trofeo adatto. Ne deve trovare
uno lì dentro o sa che andrà tutto perduto. Con la coda dell’occhio, scorge il
leggero movimento di una tenda alla sua destra, la osserva con attenzione e, in
quel momento, sa che il suo piano riuscirà. La sua preda è giovane, sembra
annoiarsi, la candida pelle è leggermente arrossata sulle guance e sulla
scollatura, deve fare molto caldo dentro casa. La vede uscire per prendere un
po’ d’aria fresca, magari per allontanarsi da tutto e tutti, è incauta, non sa
che non dovrebbe girare da sola o potrebbe succederle qualcosa di molto brutto.
Sorride
Sam, mentre la scruta, ne studia ogni dettaglio, ogni ricciolo perfettamente
acconciato, ogni filo del vestito costoso che indossa. Non dovrebbe spettare a
lei quella sera. Quella candida giovane è una preda che se mangiata e posseduta,
attirerebbe troppa attenzione, ma la fame lo sta conducendo alla follia. Deve
essere lei, deve calmarsi e farlo, pur rischiando di esporsi troppo, piuttosto
che perdere il controllo più avanti. Rischiare adesso o morire dopo. Di nuovo,
per un fastidioso istante, ricordi antichi che credeva di aver soffocato per
sempre tornano ad appannargli la vista, ricordi di un corpo candido come quello
che ha ora davanti, ma adesso li scaccia con una crudeltà e una determinazione
maggiore di tutte le altre volte. Deve farlo, deve placare la sua fame.
Sam
esce dalle ombre e si avvicina alla sua preda affinché lei lo possa vedere. Sorride
cordialmente e lei, invece di rientrare subito in casa dove potrebbe essere al
sicuro, lo guarda sorpresa, incuriosita, ma non impaurita, non diffidente.
Forse questo è il suo più grande sbaglio, l’errore che la porterà alla morte.
Ma del resto, come poterla rimproverare, nessuno ha mai paura di Sam, nessuno
guardandolo lo penserebbe capace di simili atrocità.
Un
lupo travestito da agnellino.
O
forse un agnellino con la fame di un lupo.
Ormai,
non ricorda più nemmeno lui cos’è.
Quando
aprii gli occhi, il sole era appena sorto, mi stiracchiai pigramente tra le
lenzuola e mugolai soddisfatta. Non volevo aspettare l’arrivo di Julie e Abigail,
quindi uscii da sotto la coperta e mi diressi saltellando verso la porta della
mia cabina armadio, ma, quando la aprii, rimasi sconvolta. L’ultima volta che
ero stata lì dentro – ossia quando ero arrivata il primo giorno – ero certa di
averci sistemato dentro un unico vestito, poiché solo quello avevo. Ora,
invece, ogni gruccia, ogni scomparto, ogni angolo straripava di abiti, nastri,
scarpe e cappelli di ogni forma e colore. Mi voltai verso il mio cassettone,
anche quello mezzo vuoto l’ultima volta che l’avevo controllato, e quando lo
aprii, fui investita da una marea di biancheria variopinta e raffinata. Ognuno
di quei cassetti era colmo di indumenti pregiati. Ero stupita e leggermente
sconvolta. Come ci erano finiti tutti quegli abiti in camera mia? Chi li aveva
portati? Non potevano essere state Abigail e Julie né tantomeno Stevenson, me
ne sarei accorta. Dovevano per forza passarmi davanti con i vestiti per riporli
nella cabina armadio e l’unico modo per passare inosservati era farlo mentre
dormivo, ma avevo l’abitudine di chiudere sempre la porta della stanza a
chiave, per paura di mia madre, oltre al sonno leggero. L’unico momento in cui
avrebbero potuto farlo, riflettei, era durante la settimana in cui la febbre mi
aveva fatto dormire così tanto e profondamente che loro sarebbero potuti andare
e venire dalla mia camera senza che io me ne rendessi minimamente conto.
Ma
le domande restavano: perché mi avevano portato tutti quei vestiti? Erano tutti
regali di Leo? Mi batteva forte il cuore al solo pensiero ma, pensai
sconsolata, non avrei potuto comunque metterli, ero in lutto e nessuno di quei
vestiti andava bene, purtroppo.
Quindi,
a malincuore, dovetti rovistare tra i meravigliosi abiti per riuscire a tirare
fuori il mio vecchio, dimesso, abito nero. Tornai in camera e lo poggiai sul
letto, sedendomi poi alla toletta per cercare di darmi una sistemata ai
capelli.
Quando
le due cameriere arrivarono, mi aiutarono a indossare l’abito e una sola scarpa
– per non andare a infierire sul piede –, poi Julie mi fermò i capelli con una
crocchia alta, così che non risultassero troppo disordinati.
«Grazie,»
sussurrò Abigail porgendomi le stampelle per non farsi sentire da Julie
dall’altra parte della stanza, io sorrisi e scossi la testa.
«Grazie
a te per avermelo detto.»
Lei
annuì e mi precedette, così da potermi aprire la porta mentre Julie iniziava a
rifare il letto. Salutai entrambe le ragazze con un cenno del capo e mi
incamminai verso la sala da pranzo. Non avevo idea di cosa avesse in serbo Leo
per me, ma il mio corpo non aveva smesso un attimo di fremere da quel momento
sulle scale.
Mi
chiesi distrattamente se ci sarebbero state altre persone sedute a tavola con
noi, e ciò ridusse un po’ il mio entusiasmi, dopotutto la sera dell’incidente,
nella sala oltre a Leo e mia madre, avevo contato altre quattro persone. Sapevo
per certo che la duchessa era andata via con mia madre, ma gli altri tre
uomini? La loro era stata una breve visita o stavano ancora soggiornando alla
tenuta senza che io lo sapessi?
Ormai,
l’unico modo che avevo per scoprirlo era varcare le grandi porte della sala da
pranzo e sperare, sperare con tutta me stessa che a quel tavolo ci fosse seduto
solo Leo.
Quando
finalmente arrivai davanti alla porta, non sentii rumori dall’altra parte, il che
poteva essere un buon segno, oppure semplicemente, potevo essere stata la prima
ad arrivare.
Inspirai
profondamente e poi, con grande calma, abbassai la maniglia della porta,
aprendola delicatamente.
Rimasi
per un attimo immobile sulla soglia, le mie pulsazioni che aumentavano di
secondo in secondo. Leo era seduto a capotavola, indossava una semplice camicia
nera con un gilet in pelle e mi scrutava serio. Nella stanza non c’era nessun
altro.
«Buongiorno,»
disse, il tono basso e controllato, io deglutii, avvicinandomi e restituendogli
il saluto. Sembrava stanco ma perfettamente in sé, le occhiaie erano ancora
presenti sul suo bellissimo volto ma meno marcate del giorno prima e lo spacco
sul labbro era meno rosso, ma almeno non avvertivo nessun odore di alcol e i
suoi occhi erano limpidi. Feci per sedermi al tavolo ma, di nuovo, mi bloccai
perplessa. La tavola come sempre straripava di cibarie, ma non c’era il mio
coperto, solo il posto di Leo era stato apparecchiato. Corrucciata, sollevai lo
sguardo su di lui, che mi sorrise beffardo poi, lentamente spostò lo sguardo
sul pavimento accanto a lui, indicandolo con un cenno della testa e tornando
subito a posare i suoi occhi su di me.
«Inginocchiati.»
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