Capitolo 15

 

“Devo davvero farlo, Signore? È imbarazzante.”

 


 “Toccati per me, piccola, o la prima cosa che farò

quando ci vedremo sarà assestarti uno schiaffo

su quel bel culetto.”

 

 

C’erano stati molti momenti nella mia vita, in cui mi ero sentita così tanto in imbarazzo e mortificata da desiderare solo di sparire per sempre inghiottita dal terreno. Una volta in particolare, non ricordo che età avessi, di certo ero molto piccola. Mi trovavo con i miei genitori in un grande parco, non saprei dire di preciso dove, forse era il giardino di qualche abitazione privata, perché ricordo tanti altri bambini vestiti come bambole. Trotterellavo felice dietro a mio padre quando poggiai male il piede a terra, questo si storse dolorosamente, facendomi perdere l’equilibrio. Dato che il terreno era lievemente in pendenza, ruzzolai per qualche metro, poi battei violentemente il mento contro il suolo, mordendomi la lingua. Sentivo dolore ovunque, il piede mi pulsava terribilmente, la schiena mi mandava delle fitte atroci, il mento mi doleva indicibilmente e sentivo in bocca il sapore del sangue. Piangevo mentre cercavo di rialzarmi facendomi forza sulle braccia deboli, mi guardai attorno, la vista offuscata dalle lacrime; mia madre era lì, mi fissava e rideva, rideva assieme a tutti gli altri presenti, rideva ignorando le ferite e le lacrime della sua stessa figlia. Sentivo solo risate attorno a me, solo altro dolore che si andava ad accumulare. Piansi ancora più forte, nascondendo il volto tra le mani. Le grandi mani di mio padre mi sollevarono da terra prendendomi in braccio, portandomi via da quel posto orribile e lontana dall’eco di quelle tremende risate. Quella, fu la prima delle tante volte in cui avrei desiderato sparire dalla faccia della terra.

Anche in quel momento, mentre mi avvicinavo lentamente al punto che Leo mi aveva indicato per eseguire il suo ordine, avrei dovuto provare un tremendo imbarazzo, avrei dovuto ritenere tutto ciò estremamente umiliante e degradante, invece mi sentivo solo smaniosa di ubbidire, volevo solo compiacerlo.

Mi fermai al suo fianco, guardandomi attorno, non sapendo bene come muovermi, tenendo ancora le stampelle in mano. Mi chinai leggermente per posarne una a terra e poi, sollevate come meglio potevo le gonne per non poggiarci sopra le ginocchia e tirarle facendomi male, iniziai a piegare le gambe finché non sentii il freddo pavimento entrare in contatto con le mie calze. A quel punto, misi anche l’altra stampella accanto a me e, ricordandomi le nostre lettere, giunsi le mani dietro la schiena, tenendo lo sguardo fisso sui suoi stivali lucidi.

Una mano mi accarezzò delicatamente la nuca.

«Brava, piccola.»

Fossi stata una gatta, avrei fatto le fusa in quel momento. Mi sentivo leggera e felice, con il cuore che batteva così forte da farmi temere che stesse per esplodermi nel petto. Chiusi gli occhi, godendomi ogni singolo particolare di quel momento così perfetto.

«Perché ti sei messa questo vestito?» chiese lui, il tono sembrava leggermente scocciato. Riaprii gli occhi ma resistetti all’impulso di guardarlo in viso.

«Devo portare il lutto, Signore.»

Grugnì passando una mano tra i miei capelli e disfacendo senza tante cerimonie lo chignon che mi aveva fatto Julie. I miei lunghi capelli perennemente arruffati caddero come un manto sulle mie spalle e qualche ciocca mi finì sul volto.

«Per quanto mi riguarda, hai già portato anche troppo questo lutto. D’ora in poi voglio vederti indossare i tuoi nuovi abiti.»

Mi morsi il labbro per impedirmi di parlare a sproposito. Avrei voluto chiedergli come ci fossero finiti quei vestiti in camera mia, perché me ne avesse comprati così tanti, soprattutto – perché sapevo che poteva essere stato solo lui a farlo –, e come sapeva che mi sarebbero stati bene visto che non conosceva le mie misure. Annuii, invece, ricordando bene che una delle regole mi impediva di parlare a meno che non mi venisse posta una domanda diretta o non volessi interrompere tutto con la mia parola di sicurezza.

La sua mano mi accarezzò le ciocche, scostandomele dal viso e appuntandomele dietro l’orecchio.

«Sbottonati l’abito.»

Inspirai bruscamente sollevando le dita tremanti sul colletto dell’abito, sbottonai goffamente la lunga fila di bottoni, mentre percepivo il suo sguardo attento seguire ogni mia mossa, riuscivo quasi a percepire dove fossero puntati i suoi occhi, tanto il suo sguardo bruciava sulla mia pelle.

«Basta così.»

Mi fermò quando arrivai all’altezza del seno. Quel fastidiosissimo bottone che stava proprio nel punto più critico era ancora chiuso e, ora più che mai, lo sentivo tirare e premere sui miei seni. In quel momento, sperai con tutto il cuore che la cucitura cedesse e che saltasse via. 

Lo sentii emettere un leggero mormorio e la sua mano libera comparve nel mio campo visivo. Trattenni il fiato mentre osservavo le sue dita agganciarsi a quel bottone critico e, lentamente, sfilarlo dall’asola. Il sollievo fu istantaneo e mi ritrovai a sospirare con forza, la bocca leggermente dischiusa.

«Non mi è piaciuto, sai,» mormorò spostando leggermente le dita e poggiandole sulla pelle sensibile del mio seno, carezzandola delicatamente. Ansimai. Il contatto con quella ruvida mano bollente era sublime, sentivo la pelle sfrigolare lì dove i suoi polpastrelli passavano, «vederti così svestita di fronte ad altri due uomini.»

Aggrottai le sopracciglia, stordita, troppo distratta da quella lenta carezza sul seno per capire a cosa si stesse riferendo.

«James sa che non deve nemmeno guardarti, ma quel dottore… quel dottore ha rischiato di finire sgozzato più di una volta.»

Avrei dovuto tremare spaventata alla sola idea che potesse fare del male a chiunque, che pensasse di uccidere qualcuno, solo perché mi aveva guardata, eppure, le sue parole mi eccitarono terribilmente e, improvvisamente, quel leggero tocco della mano non mi bastò più. Mi umettai le labbra, spingendo leggermente il petto in avanti, desiderosa che lui mi toccasse di più, con maggior foga. Ma non ottenni quello che desideravo, infatti proprio in quell’istante, lui ritrasse la mano, tornando a voltarsi verso la tavola imbandita.

«Direi che adesso possiamo fare colazione,» annunciò, quindi rimasi muta, gli occhi sempre fissi a terra. La smania e il desiderio che mi bruciavano dentro, rendendomi impossibile ogni altro pensiero logico.

Lo sentii armeggiare con i piatti e le posate, versare qualcosa e poi, di nuovo, la sua mano entrò nel mio campo visivo. Reggeva un piccolo pezzo di pane con spalmata sopra della confettura.

«Mangia,» mi ordinò e io, ubbidientemente, aprii la bocca per permettergli di imboccarmi. Masticai piano e il dolce sapore delle fragole mi investì. Gustai quel semplice pezzo di pane come non avevo mai fatto con nient’altro in vita mia e quando ne vidi comparire un secondo davanti alla mia bocca, mi affrettai ad ingoiare. Di nuovo, aprii la bocca per farmi imboccare ma, questa volta, la chiusi prima che la sua mano si allontanasse. Strinsi le labbra attorno alle sue dita e lui le sfilò molto più lentamente dalla mia bocca.

«Sei proprio una bambina cattiva,» disse in un sussurro, la voce leggermente più arrochita, e io mi sentii orgogliosa di quelle parole che, dette da lui, erano solo un complimento. Avevo così tanta voglia di alzare la faccia e guardarlo, di poter sapere che espressione avesse, volevo annegare ancora una volta in quegli occhi che mi pareva di non vedere da secoli. Le ginocchia iniziavano a dolermi e le braccia, costrette dietro la schiena, a stancarsi della posizione di sforzo in cui le avevo messe, ma non mi importava, avrei resistito anche fino al calar della sera se il mio Signore l’avesse chiesto. Un terzo pezzo di pane generosamente cosparso di conserva venne fatto passare sotto il mio viso, spalancai nuovamente la bocca ma, mentre la mano si avvicinava per imboccarmi, vidi le dita aprirsi e lasciar cadere il pane che capovolgendosi, cadde sul mio seno.

«Accidenti, che sbadato che sono,» mormorò quasi sovrappensiero, come se in realtà fosse distratto. «Permettimi di rimediare al mio errore.»

E, senza esitazione, si chinò interamente su di me, alla portata del mio sguardo, la sua bocca calò famelica sul mio seno, leccando via il cibo con avidità. Incapace di trattenermi, gemetti flebilmente chiudendo gli occhi e afferrandomi convulsamente gli avambracci per frenare il mio desiderio di afferrargli il capo per spingerlo ad affondare ancora di più nel mio petto. La sua lingua leccò ogni centimetro di pelle che riusciva a raggiungere, la sua barba mi graffiava, le labbra succhiavano e i denti mordevano delicatamente. Strinsi le gambe e mossi il bacino in cerca di sollievo, con l’eccitazione che cresceva sempre di più dentro di me e che chiedeva solo d’essere soddisfatta. Quella bocca famelica scese impercettibilmente, assalendo un altro lembo di pelle, così vicina al mio capezzolo ancora coperto dalla stoffa. Sentii la sua saliva colarmi lungo la pelle e bagnarmi l’abito, mentre la sua barba continuava a sfregare sulla mia pelle resa sensibile dai suoi baci peccaminosi. Mi morsi il labbro riaprendo cautamente gli occhi, giusto in tempo per scorgere una delle sue mani raggiungere nuovamente la fila di bottoni del mio abito e sfilarne altri due. All’istante, il bustino del mio abito si aprì maggiormente, mettendo in mostra quasi del tutto il mio seno, coperto solo dalla leggera sottoveste che avevo indossato quella mattina. I miei capezzoli si protendevano duri e scuri da sotto la stoffa leggera, lui si staccò dal mio corpo per poter osservare meglio e, durante quello scrutinio, lo sentii emettere un gemito di apprezzamento che riverberò in tutto il mio corpo. Le sue mani si mossero andando a stringere da sopra la camiciola i miei seni, strizzandoli delicatamente.

«Così morbide…» gemette ancora, prendendo tra le dita i miei capezzoli e torcendoli. Io mi morsi le labbra per non urlare a pieni polmoni, stringendo convulsamente le gambe. Sentivo la testa leggera, come se fluttuassi tra le nuvole e il cuore mi rimbombasse nelle orecchie. Serravo le gambe spasmodicamente, illudendomi che quello potesse darmi un qualche tipo di sollievo, spegnere il fuoco che mi stava divorando. Per quanto stringessi, per quanto dondolassi febbrilmente il bacino, tutto era inutile, perché solo il mio Signore avrebbe potuto darmi il sollievo che tanto cercavo.

Le sue labbra si chiusero attorno a uno dei miei capezzoli, prendendo a succhiarlo con foga mentre continuava a tormentare l’altro con le dita. Mi inarcai, spingendomi ancora di più verso quelle deliziose torture.

«Signore, vi prego…» ansimai, non riuscendo a resistere oltre, bisognosa che ponesse fine ai miei tormenti.

Lui parve ignorarmi, continuando a succhiare senza pietà da sopra la stoffa ormai zuppa, il mio capezzolo ormai chiaramente visibile, poi la sua bocca si staccò con uno schiocco dal mio petto, restando a contemplare per un lungo minuto la sua opera. Arrischiai un’occhiata timida al suo volto e inspirai bruscamente. I suoi occhi erano totalmente neri, le pupille così dilatate da non riuscire più a intravedere il chiarore delle iridi, la bocca umida e leggermente schiusa, ansimava appena; per me quello era il ritratto della lussuria. Come avvertendo il mio sguardo, sollevò il suo e ci fissammo per un minuto, temevo mi avrebbe punita per aver infranto una delle sue regole, invece, lo vidi stirare la bocca in un sorriso storto.

«Direi che per oggi può bastare, alzati pure.»

Sbattei le palpebre, perplessa e sorpresa, sperando che aggiungesse altro, ma lui si limitò a tirare su il busto, tornando a sedersi composto sulla sedia. Mi lasciò così, arruffata, bagnata e insoddisfatta, incapace di trovare il sollievo che tanto agognavo.

«Rivestiti in fretta,» sogghignò beffardamente, «se non vuoi che Stevenson ti veda così.»

Presa dal panico, iniziai ad abbottonarmi il vestito più in fretta che potevo, costringendo i miei seni ora sensibili a stringersi nuovamente dentro quella tortura. I miei capezzoli sfregavano contro il tessuto, mandandomi piccole scariche di piacere lungo la colonna vertebrale. Repressi un gemito mentre con le mani cercavo di aggiustarmi meglio i capelli, sapendo bene che non avrei mai potuto acconciarli come aveva fatto Julie e poi, lentamente, cercai di rimettermi in piedi. Non fu facile però, le mie gambe, non abituate a una simile posizione, formicolavano in modo atroce, rendendomi impossibile fare forza per tirarmi su, non sapevo proprio come alzarmi da sola ma, fortunatamente, Leo era lì.

Mi afferrò sotto le ascelle e mi sollevò di peso, trascinandomi oltre i braccioli della sedia e poggiandomi sul suo grembo.

«Dovremo far esercitare un po’ queste gambine,» mi sussurrò tra i capelli mentre con una mano si intrufolava tra le pieghe del mio abito. Sperai con tutto il cuore che mi toccasse in quel punto magico che, sapevo, era il centro del mio piacere; invece, si limitò ad accarezzarmi teneramente le gambe, massaggiandole. Anche quei tocchi però, per quanto innocenti, non fecero che aumentare la smania che avevo nei suoi confronti. Mi mossi sul suo grembo, guardandolo in faccia con occhi supplichevoli.

«Ti prego, Leo.»

Lui sorrise, chinando il capo per darmi un bacio sulla punta del naso.

«No.»

Sbattei le palpebre, confusa, ma lui di nuovo non parve volermi dare spiegazioni, mi fece rimettere cautamente in piedi e, quando fu certo che le mie gambe non cedessero, mi lasciò andare per permettermi di raggiungere il mio posto. Non sapendo però dove sedermi lo guardai e lui, semplicemente, indicò la sedia alla sua destra mentre con la mano sollevava un campanello e lo scuoteva forte, facendolo risuonare in tutta la stanza.

Presi posto nell’istante in cui Stevenson entrò con altri servi che, immediatamente, iniziarono a predisporre anche il mio coperto. Io non potei fare a meno di arrossire, chiedendomi se tutti loro fossero rimasti semplicemente fuori dalla porta ad aspettare e avessero quindi sentito tutto. Non ebbi il coraggio di sollevare lo sguardo dal piatto e mangiai alla cieca ciò che mi venne servito, non riuscivo a sentire nessun sapore, troppo occupata a strofinare le gambe nel disperato tentativo di alleviare un po’ il bisogno che sentivo ancora spingere dentro di me.

«Desdemona.»

Sollevai di scatto la testa verso Leo, il suo tono duro mi mozzò il fiato. Quando incontrai i suoi occhi severi, capii che sapeva cosa stavo facendo. Il suo era stato un ammonimento. Rassegnata, quindi, smisi di fare pressione e lasciai che quel bisogno di piacere insoddisfatto mi attanagliasse definitivamente.

Il mio Signore non voleva che trovassi soddisfazione, e non l’avrei fatto. Quando e se l’avesse desiderato, sarebbe stato lui a condurmi sulle vette del piacere, ma fino ad allora avrei dovuto stringere i denti e resistere.

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