Capitolo 16
“Almeno per un istante, mi piacerebbe
sentire il suono della tua voce.”
“Vorrei vedere il tuo volto
stravolto dal piacere.”
Quando
il dottore tornò, Leo lo fissò cupo per tutta la visita, niente di diverso dal
suo abituale comportamento, ma siccome sapevo che lo faceva per gelosia… non
potei non sorridere mentre ascoltavo il medico complimentarsi con me.
«Ormai
non ci dovrebbero essere più pericoli, signorina,» annunciò, appoggiando il mio
piede a terra, «ciononostante, continuate a tenere le stampelle ancora per
qualche tempo. Vi consiglierei di usarle se doveste percorrere lunghe tratte o se
il piede dovesse tornare a dolervi.» Sorrise affabilmente tornando in posizione
eretta. «In quel caso non esitate a chiamarmi.»
Leo
grugnì e si affrettò ad avvicinarsi al mio letto, piazzandosi tra me e il
dottore.
«Vi
ringrazio, dottore. Stevenson vi accompagnerà all’uscita.»
L’uomo
sussultò sorpreso da quella brusca intrusione, si sistemò nervosamente gli
occhiali sulla punta del naso e poi, con un profondo inchino rivolto a
entrambi, indietreggiò fino alla porta, dove ad attenderlo c’era il maggiordomo,
che osservava la scena con una luce divertita negli occhi.
«Se
continui a spaventarlo così si rifiuterà di venire la prossima volta che ci
sarà bisogno di lui.»
Leo
mi fissò con la fronte aggrottata.
«Se
sa che ci sei tu qui, ho idea che verrebbe anche a piedi sotto un nubifragio.»
Arrossii
e distolsi lo sguardo, posandolo sulla pila di libri che avevo letto durante i
miei giorni di degenza.
«Dubito
fortemente che lo farebbe.»
Il
letto accanto a me si affossò, segno che Leo si era seduto. Una delle sue mani
si insinuò delicatamente tra le mie e io la afferrai, le nostre dita si
incrociarono e io mi sentii la ragazza più felice del mondo.
«Sì,
invece,» riprese lui mentre mi carezzava distrattamente il dorso della mano col
pollice, «perché io farei esattamente la stessa cosa.»
Tornai
a voltarmi e lui mi sorrise in modo quasi impercettibile.
«Camminerei
tra le fiamme per raggiungerti.»
Non
sapevo cosa rispondere a quella dichiarazione, mi mancava quasi il fiato, ma
non volevo avere un altro dei miei soliti attacchi, non volevo farlo
preoccupare di nuovo. Inspirai profondamente cercando di pensare a cose più
neutrali, cose che non fossero l’immensità dei suoi sentimenti nei miei
confronti o dei miei nei suoi.
Mi
avvicinai a lui, appoggiandomi contro il suo fianco e odorandolo: sapeva di
terra, di muschio bagnato, di fieno e di polvere da sparo. Un odore così
intenso e meraviglioso che mi inebriava incredibilmente, come il resto di lui
d’altra parte.
Strinsi
più forte la sua mano e guardai ogni sua venatura, ogni callo, ogni più piccola
ferita e cicatrice che quella mano aveva, ogni segno era una storia, ogni
ferita una domanda che avrei voluto fargli, ma non c’era abbastanza tempo, non
mi sembrava possibile ci fosse abbastanza tempo per fare tutte le domande che
volevo, perché bramavo di conoscere ogni dettaglio, ogni secondo della vita di
quell’uomo. I particolari che nelle lettere mi aveva taciuto, i segreti che
nessun altro conosceva. Volevo tutto e anche di più, conoscerlo come conoscevo
me stessa, forse anche meglio.
«Anche
io,» riuscii a mormorare, alla fine. Niente di quello che pensavo mi sembrava
abbastanza come risposta, niente mi sembrava poter eguagliare quei sentimenti,
perché anche se dentro di me sapevo bene quanto amassi quell’uomo, non riuscivo
a trovare un modo che sembrasse giusto per comunicarglielo con i gesti o con le
parole. Sembrava tutto così inadatto, così riduttivo. In quel momento, mi tornò
in mente il giorno del funerale del nonno. Ricordai come mi ero sentita: così
spaesata dallo scoprire che la morte poteva effettivamente arrivare a colpire
me o qualcuno a me vicino, da non riuscire nemmeno a piangere o a essere
triste. Esternare i propri sentimenti era così complicato.
Leo
si sporse per baciarmi la fronte, mugolai felice stringendomi ancora di più al
suo fianco.
Quei
giorni si stavano rivelando una dolce tortura per il mio povero corpo,
attaccato da tutti i lati e in ogni momento del giorno. Ormai ero al limite
della sopportazione e, di conseguenza, ogni volta che Leo mi toccava rischiavo
di perdere totalmente il controllo delle mie azioni.
La
sera prima, mentre stavamo cenando da soli in tutta tranquillità, aveva
improvvisamente sollevato gli occhi dal piatto e mi aveva chiamata con voce
roca. Sorpresa, avevo sollevato lo sguardo con ancora in bocca il pezzo di
carne che stavo masticando.
«Alzati
e vieni qui,» mi aveva ordinato e per poco quel boccone non mi era andato di
traverso. Subito, mi ero sbrigata a scostare la sedia e ad alzarmi, finalmente
senza più bisogno delle stampelle, ed ero quasi corsa al suo fianco. Quella
sera, per seguire i suoi ordini, avevo deciso di indossare un semplice abito
blu scuro, con dei deliziosi decori in pizzo sul bordo e sulle spalline. Quel
vestito mi era parso adatto a una pacifica via di mezzo tra il mio desiderio di
continuare a portare il lutto nonostante tutto e i desideri del mio Signore.
Anche se sapevo che presto o tardi avrei dovuto indossare uno degli sgargianti
e variopinti abiti che aspettavano pazienti nella mia cabina armadio, ancora
non mi sentivo del tutto pronta.
Leo
mi aveva fissato inespressivo mentre si sistemava meglio sulla sedia, quella
sera lui aveva indossato una camicia color antracite aperta sul davanti e, per
la prima volta grazie all’angolazione in cui ero, avevo potuto scorgere una
parte di quello che ipotizzai fosse un tatuaggio sulla pelle del suo petto.
Avrei voluto scostare il lembo della camicia per poterlo osservare meglio. In
realtà, mi ritrovai a pensare arrossendo, che mi sarebbe piaciuto vederlo nudo
a prescindere.
Aveva
sorriso beffardo battendosi una mano sulla coscia.
«Su,
monta.»
Già
eccitata e incuriosita, mi ero arrampicata sul suo grembo e lui, con le mani,
mi aveva guidata finché non mi ero sistemata comodamente a cavalcioni su di
lui, le gambe aperte appoggiate sui braccioli ai lati del suo corpo e la
schiena premuta contro il tavolo.
«Mmm…»
aveva mormorato lui, passando lentamente in rassegna il mio corpo con lo
sguardo, «che banchetto sublime.»
Poi
la sua bocca era calata sulla mia mentre una sua mano, rapida, sfilava i lacci
del mio abito, rendendo così il mio petto vulnerabile ai suoi attacchi. La mano
aveva poi agguantato con forza un seno, stringendolo e palpandolo rudemente
mentre con l’altra si infilava sotto il mio abito, carezzando il mio punto più
intimo da sopra la stoffa che lo ricopriva, facendomi smaniare per un maggior
contatto, facendomi perdere sempre di più il controllo.
Alla
fine, incapace di resistere, mi ero aggrappata al suo collo, tirandolo più
vicino a me e sfregando freneticamente sulla sua mano, spingendo in fuori il
petto, bisognosa di ricevere quel sollievo che inseguivo da giorni; ma ancora
una volta, un attimo prima di ricevere quella liberazione, il mio Signore si
era staccato da me, sorridendo malignamente.
«Puoi
tornare al tuo posto.»
Mi
aveva congedata con voce roca e, sebbene avessi sentito chiaramente la sua
prepotente erezione nei pantaloni e avessi desiderato incoraggiarlo per
concludere ciò che aveva iniziato, lentamente mi ero sistemata l’abito,
scendendo dal suo grembo per tornare al mio posto con gambe tremanti e il fiato
corto.
Quella
mattina, poi, mentre aspettavo le cameriere per scegliere un abito adatto alla
visita del dottore, l’avevo visto entrare in camera senza bussare, senza
aspettare. Aveva semplicemente fatto irruzione, con lo sguardo determinato e
lussurioso, e si era chiuso la porta alle spalle, girando la chiave nella
toppa. Io avevo deglutito, fremendo per l’aspettativa e le promesse che leggevo
in quello sguardo da leone affamato. In un attimo mi era arrivato addosso,
mettendomi entrambe le mani sotto al sedere e sollevandomi da terra. Avevo
prontamente aperto le gambe per allacciarle attorno ai suoi fianchi e gli avevo
buttato le braccia al collo. L’avevo sentito gemere, un gemito disperato e
bisognoso, poi le nostre bocce si erano unite mentre lui mi spingeva contro il
muro. La nostra era stata una danza frenetica, le sue mani palpavano il mio
corpo senza nessuna grazia né delicatezza, i suoi fianchi scattavano verso
l’alto seguendo il movimento dei miei. Eravamo entrambi lupi famelici ormai al
limite. Mi ero stretta a lui, premendo il mio petto contro il suo, felice di
sentire quanto lui avesse bisogno di me. Sperando che, forse, il momento della
mia – della nostra – liberazione fosse finalmente giunto.
Poi
Stevenson aveva bussato alla porta.
«Il
dottore sta salendo,» gli avevo sentito dire, con un tono un po’ troppo
divertito per i miei gusti, «forse è meglio se aprite la porta.»
Leo
aveva ringhiato, frustrato, senza però scostarsi dal muro ne lasciando andare
la presa sulle mie terga. Con un sospiro deluso gli avevo poggiato la guancia
sulla spalla e mi ero sporta per depositargli un piccolo bacio su una vena del
collo.
«Possiamo
sempre continuare dopo.»
Lui
aveva grugnito, palesemente contrariato – come me del resto – per
quell’interruzione, ma alla fine si era deciso a farmi scendere, lasciandomi
scivolare piano lungo il suo corpo.
Il
dottore era arrivato e aveva svolto la sua visita apparentemente senza il
minimo sospetto di ciò che era successo in quella stanza pochi minuti prima, il
che era senza dubbio un bene.
Finalmente,
di nuovo soli, di nuovo liberi di agire indisturbati, smaniavo per poter
continuare da dove ci eravamo interrotti poco prima, sfortunatamente Leo non
era dello stesso avviso.
Dopo
avermi dato un altro bacio sulla fronte, sciolse l’intreccio che erano
diventate le nostre mani e si alzò dal letto, guardandomi con un’espressione
indecifrabile in volto.
«Purtroppo
oggi ho degli impegni, devo stare fuori fino all’ora di cena.»
Cercai
di non mostrarmi troppo delusa da quella scoperta, quindi con il tono più
gioviale che riuscii a tirare fuori in quel momento, gli augurai una buona
giornata e lo osservai uscire dalla mia stanza a grandi falcate.
Dopo
l’iniziale momento di alterazione, mi ritrovai a sospirare rassegnata. In fondo
non potevo certo pretendere che un uomo adulto con alle spalle i suoi affari
potesse passare tutto il giorno con una ragazzina a… a fare cosa, poi?
Arrossii
immaginandomi vividamente quello che la mia mente ripescò dal contenuto delle
nostre lettere. Scossi la testa, non era certo quello il momento di fare quel
tipo di pensieri.
Venni
salvata dalla mia stessa mente da Julie e Abigail, che entrarono sorridenti e pronte
a svolgere i loro compiti del mattino.
Mi
aiutarono a scegliere l’abito, anche se ormai non ce n’era più bisogno, e poi
Julie iniziò ad acconciarmi i capelli in una lunga treccia. Mentre lavorava,
osservai affascinata i movimenti rapidi e sicuri delle sue mani, intente a
intrecciare ogni ciocca nel modo corretto, e la ammirai profondamente.
«Non
vi piace?»
Sollevai
i miei occhi sul riflesso della ragazza, che ora si era fermata con metà
treccia fatta e le mie ciocche tra le mani. Aggrottai la fronte, perplessa.
«No,
anzi, mi piace moltissimo, perché me lo chiedi?»
Julie
arrossì, riprendendo a lavorare minuziosamente alla treccia.
«Perdonatemi,
io non…»
«Julie
si sente un po’ insicura,» si intromise Abigail comparendo dall’altra parte
dello specchio, con una coperta appallottolata sotto il braccio.
«Non
era molto apprezzata dai suoi vecchi datori di lavoro e quindi ora ha questi
dubbi, giusto, Julie?»
La
ragazza annuì con forza, senza però sollevare gli occhi dal suo lavoro. Mi
portai una mano sulla guancia e la tastai, seguendo il movimento della mia mano
sulla superficie riflettente.
«Non
c’è bisogno che mi mentiate, lo sapete, vero?» mormorai, fissando il mio volto
nello specchio. «So di essere quasi totalmente inespressiva.»
E
alla fine era vero, per quanto provassi a sorridere, per quanto fossi sorpresa
o arrabbiata, impaurita o triste, le emozioni che mostravo agli altri non
riflettevano mai nemmeno lontanamente quello che io provavo o quello che
pensavo di mostrare. Se nella mia testa stavo sorridendo felice, agli occhi
delle altre persone sarebbe stato solo un sorriso appena accennato. Se io
credevo di mostrarmi genuinamente sconvolta, il mio volto appariva solo lievemente
sorpreso. Era come se tra la mia volontà e il mio corpo ci fosse una specie di
filtro, che mostrava al mondo solo una piccola parte di ciò che provavo. Era
terribilmente frustrante.
«Ma
no, contessa,» mormorò Julie, fermandosi per guardarmi in faccia. «Davvero,
sono solo io a essere terribilmente insicura, perdonatemi.»
Sorrisi
e decisi di non insistere, anche se sapevo che stava mentendo.
Dopo
la colazione – che, vista l’assenza di Leo, decisi di consumare in camera – non
sapendo cosa fare, scesi in cucina armata di taccuino e matita, sperando di
riuscire finalmente a scoprire qualcuna delle ricette di Lewis.
Quando
entrai, però, rimasi un attimo sorpresa dalla scena che mi trovai di fronte.
C’era un uomo che piangeva silenziosamente seduto al tavolo della cucina, Lewis
al suo fianco, gli stava passando un candido fazzoletto affinché potesse
asciugare le lacrime e soffiare il naso.
«Mi
dispiace enormemente,» sentii mormorare al cuoco, la voce poco più di un
sussurro.
«Era
tutto il mio mondo e ora… ora è cibo per i vermi!»
Sussultai
a quella frase e il movimento non passò inosservato. Lewis sollevò il capo e mi
vide.
«Contessa!» esclamò alzandosi di scatto, e di
riflesso anche lo sconosciuto fece altrettanto. Era molto più basso del cuoco
ma con spalle decisamente larghe e braccia forti, di chi è abituato a sollevare
pesi tutto il giorno. Aveva un naso tozzo e rubicondo sopra una folta barba
grigia che compensava la mancanza di capelli sulla testa e la pancia di chi amava
bere birra senza preoccuparsi delle conseguenze.
«Perdonatemi,
contessa, tolgo subito il disturbo,» disse l’uomo inchinandosi e raggiungendo la
porta di servizio che dava sul retro dell’edificio.
«No,
si figuri, torni pure a sedersi, lei è sconvolto.»
Mi
avvicinai cautamente, facendogli segno con la mano di riaccomodarsi al tavolo,
ma lui scosse mestamente la testa.
«Ero
venuto solo per la consegna giornaliera, ma vi ringrazio,» affermò tirando su
col naso, si tamponò gli occhi rossi e gonfi un’ultima volta, poi lasciò il
fazzoletto sul tavolo e, dopo essersi inchinato nuovamente verso di me e fatto
un cenno col capo a Lewis, imboccò la porta andando via.
Guardai
il cuoco, che mi restituì lo sguardo, preoccupato.
«Immagino
vogliate sapere chi fosse e perché stesse piangendo.»
Annuii
avvicinandomi ancora di più al tavolo e sedendomi, Lewis parve titubare qualche
istante poi, anche lui si lasciò cadere sulla sua sedia, con un grande sospiro.
«Vedete,
quell’uomo, Williams, è il proprietario di una fattoria non lontano da qui.
Ogni mattina viene per portarci ciò di cui abbiamo bisogno, generalmente uova e
latte appena munto…» si interruppe un attimo, lanciandomi una profonda
occhiata, incerto se proseguire o meno nel racconto. «Era già da qualche
settimana che non veniva più per le consegne ma, in un primo momento, abbiamo
pensato fosse semplicemente ammalato e quindi impossibilitato a muoversi.»
«Ma
non era così, giusto?» dedussi io, vedendolo di nuovo tentennare. «Ho sentito
cos’ha detto: qualcuno è morto.»
Lewis
annuì greve. «Sì, qualche settimana fa è stato ritrovato il corpo della figlia
minore, in uno dei boschi qui vicino…» un’ombra scura gli passò sul volto, «non
aveva nemmeno quindici anni.»
Morire
così giovani era qualcosa di ingiusto e tremendo, non riuscivo a immaginare
cosa stesse provando in quel momento suo padre.
«Mi
dispiace molto,» dissi sussurrando, «si sa com’è successo?»
Lewis
inspirò bruscamente, appoggiandosi meglio allo schienale della sua sedia e
passandosi stancamente una mano sul volto.
«Le
autorità locali dicono che sia stata aggredita da qualche animale selvaggio,
forse un cane randagio delirante per la fame, ma nessuno crede sul serio a
questa storia.»
Aggrottai
le sopracciglia, perplessa e chiesi: «Come mai?»
Lui
mi lanciò un’occhiata triste e nel suo sguardo vidi tutta la desolazione che
poteva portare una notizia simile.
«Perché
nessun cane denuderebbe una bambina prima di sventrarla.»
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