Capitolo 17

 

“Oggi sono caduta dalle scale, la mia solita sbadataggine!”

 


“Ti sei fatta male? E non mentirmi, lo sai che capisco quando lo fai.”

 

 

Siccome Leo sarebbe rimasto fuori tutto il giorno, mi feci portare da Stevenson il necessario per scrivere e, finalmente, iniziai a stendere la lettera da spedire a mio padre. Non sapevo se mi avrebbe mai risposto, ma con il passare dei giorni la distanza da casa e dalle persone che vi abitavano si faceva sentire sempre un po’ più intensamente, e avevo bisogno di fargli sapere che, nonostante la lontananza, erano nei miei pensieri e mi mancavano. Gli raccontai brevemente del piccolo incidente che mi aveva costretta a letto per giorni, descrivendoglielo come un infortunio dovuto alla mia solita sbadataggine, poi gli chiesi come stessero tutti. Lo pregai di dire loro che mi mancavano, in particolare Molly. Rimasi a lungo pensierosa, indecisa se comunicare o no a mio padre della partenza improvvisa di mamma ma, riflettei, prima o poi l’avrebbe comunque scoperto. Sarebbe stato sciocco da parte mia tacerglielo, quindi aggiunsi anche quel dettaglio, specificando che era partita quando io ero ancora a letto e che quindi, non avevo idea di cosa l’avesse spinta ad andarsene così all’improvviso, né dove fosse andata. In realtà, sapevo che la sua fuga era dovuta a Leo, ma ero all’oscuro dei particolari. Conclusi la missiva rammentandogli che speravo che riuscisse a liberarsi presto dai suoi impegni, così da poterci raggiungere.

Firmata e sigillata la lettera, la consegnai a Stevenson che la prese con un lieve cenno del capo.

«Manderò subito qualcuno a spedirla, Contessa.»

Sorrisi osservandolo uscire con un inchino, poi mi alzai dalla sedia e mi guardai le mani sporche di inchiostro, non volevo rischiare di sporcare nulla inavvertitamente, quindi mi avvicinai al catino e le immersi nell’acqua fredda, sfregandole energicamente finché il liquido non assunse un tono grigiastro. Le tirai fuori che ancora erano leggermente sporche, ma almeno non rischiavo più di macchiare niente. Le asciugai scrupolosamente sul panno bianco mentre riflettevo su cosa fare per il resto della giornata. Fintanto che ero stata costretta a letto non mi era dispiaciuto passare il mio tempo dormendo o leggendo, ma oramai ero libera di muovermi come volevo, prima di passare altri pomeriggi immersa nei libri mi sarebbe piaciuto esplorare un po’ il luogo in cui vivevo ormai da un mese e, magari, fare anche una passeggiata nel boschetto vicino.

Nessun cane denuderebbe una bambina prima di sventrarla.

Rabbrividii al ricordo di quelle parole.

Sicuramente alla ragazzina era successo qualcosa di atroce, qualcosa che perfino le autorità locali faticavano a comprendere… o si rifiutavano di farlo, ma agli occhi di tutti era palese che qualcosa di terribile si aggirava per quelle terre, una bestia dalle fattezze umane. Chiunque fosse stato, era sicuramente un essere spregevole e malato, tanto da riversare la sua follia su un’anima innocente senza provare apparentemente il minimo rimorso. Lanciai un’occhiata fuori dalla finestra della mia camera, verso il bosco che si estendeva maestoso alle spalle della tenuta, e mi immaginai un folle essere, più bestia che uomo, nascosto tra le frasche in paziente attesa di qualche malcapitata vittima da abbattere e con cui trastullarsi dopo. Scossi il capo, scacciando quei pensieri lugubri e decisi di scendere per andare a visitare la biblioteca che ancora non ero riuscita a vedere, ma per tutto il tragitto, non potei togliermi di dosso l’impressione di essere osservata.

 

La biblioteca era magnifica, larghi scaffali carichi di libri di ogni forma e dimensione si estendevano lungo tutte le pareti e al centro della sala in file ordinate, alte fin quasi a raggiungere il soffitto, erano talmente tanti che sembrava di potersi perdere lì dentro. Davanti al caminetto spento c’erano due poltrone dall’aria estremamente comoda e, più avanti, una grande portafinestra che dava su un terrazzino con una scalinata che arrivava fin nel giardino. Era una stanza meravigliosa e già mi vedevo a trascorrere lì i freddi pomeriggi invernali… magari con Leo che sonnecchiava tranquillo al mio fianco… per la seconda volta quel giorno, scossi energicamente la testa, scacciando via quei pensieri, in quel caso, utopistici.

Percorsi lentamente ogni fila, toccai con i polpastrelli ancora un po’ macchiati le costole di ogni singolo libro, carezzandoli piano, quasi con riverenza. Lessi alcuni titoli che mi parvero interessanti e li sfilai dal loro posto, decisa a portarmeli in camera per leggerli più avanti.

Immersa com’ero ad ammirare il tutto, non mi accorsi che il tempo passava e, quando Stevenson venne a bussare alla porta annunciandomi l’ora del pranzo, sussultai spaventata, facendo cadere tutti i libri a terra.

 «Non volevo spaventarvi,» si scusò lui entrando e aiutandomi a raccogliere i tomi, io sorrisi comprensiva raccogliendo un libro che cadendo si era aperto spiegazzando un paio di pagine.

«Sono io a non essere abituata a tutto questo.»

A casa nessuno veniva a cercarmi se non mi presentavo a tavola, nessuno veniva a controllare come stavo se mi sentivo male, solo Molly che mi portava da mangiare.

«Non siete mai stata trattata come meritate,» mormorò lui con tono dolce e io arrossii.

«Oh, no,» dissi alzandomi con il libro tra le mani, «è solo che la mia è… una famiglia particolare.»

In quel momento, mi venne in mente che anche Leo faceva parte della mia famiglia e non potei fare a meno di ridacchiare, Stevenson fece evidentemente il mio stesso ragionamento perché anche lui sorrise.

«Sì, avete una famiglia molto singolare, Contessa.»

Si sporse per afferrare il libro che avevo raccolto e chinò lievemente il capo, facendomi segno di precederlo nel corridoio. Lo ringraziai e mi avviai fuori dalla biblioteca, sentendo i suoi passi seguirmi poco distanti.

«Suppongo che la mia sia solo una famiglia come un’altra, poteva andarmi molto peggio.»

Mia madre era sempre stata l’unico vero problema della mia vita, per il resto ero sempre stata circondata da persone che, anche se non mi capivano, perlomeno ci provavano.

«Avete ragione,» rispose lui con voce più seria del solito e, così come era già successo con Abigail, capii che avevo toccato un altro tasto dolente, anche senza voltarmi per guardarlo in faccia, seppi dal suo tono che la sua espressione si era fatta più cupa. Innervosita dal silenzio che era calato mentre percorrevamo il corridoio, diedi fiato alla bocca chiedendogli la prima cosa che mi venne in mente.

«Conoscete Leo da molto tempo?»

Lo sentii sospirare dietro di me, poi ridacchiare.

«Potremmo dire da tutta la vita, ma non spetta a me raccontarvi questa storia, mi dispiace.»

Come avevo supposto in precedenza, se volevo sapere qualcosa avrei dovuto chiederla direttamente a Leo, ma ogni volta che eravamo nella stessa stanza, la mia mente smetteva di funzionare in modo corretto e io mi ritrovavo a desiderare solo il tocco delle sue mani e il sapore dei suoi baci.

«Però siete amici, giusto? Questo almeno potete dirmelo?» insistei, cercando di distrarmi dai pensieri indecenti.

«Oh, sì, certo,» asserì lui allegro, «non per vantarmi troppo, Contessa, ma sono il suo più caro e migliore amico. Eppure se lo chiedete a lui probabilmente negherà fino alla morte.»

Non stentavo a immaginare Leo che, tutto orgoglioso e altezzoso, affermava di non avere amici perché non ne aveva bisogno… magari con Stevenson dietro che scuoteva mestamente la testa, alzando gli occhi al cielo. Ridacchiai a quell’immagine e varcai la soglia della sala da pranzo, lì Stevenson si congedò, non prima di chiedermi se avessi altre domande. Un desiderio folle si impossessò di me e, prima ancora che potessi frenarmi, l’idea era già passata tra le mie labbra.

«Oggi pomeriggio avete impegni, Stevenson?»

L’uomo mi fissò corrucciato per qualche secondo.

«Niente che non possa delegare a qualcun altro. Se posso chiedere, perché?»

Strinsi le mani lungo i fianchi e mi umettai le labbra, nervosa nel chiedergli quella cosa.

«Vorrei visitare il bosco, ma… ecco… non da sola.»

Un lampo di consapevolezza gli attraversò lo sguardo, evidentemente anche lui sapeva cos’era successo alla piccola figlia del signor Williams.

«Magari io e qualcun altro della servitù potremmo accompagnarvi, se vi fa stare più tranquilla.»

Scossi velocemente la testa. «Ah, no… io… non mi sento a mio agio con persone che non conosco… senza offesa per il resto della servitù, ma ecco…»

Lui mi fermò con un gesto della mano, sorridendo.

«Capisco bene, non c’è bisogno che vi giustifichiate con me. E se venissero Lewis, Julie e Abigail? Con loro mi sembrate più a vostro agio.»

Annuii raggiante, ringraziandolo per l’idea, lui si inchinò di nuovo e annunciò che sarebbe andato a informare gli altri, così che fossero tutti pronti a partire quando io l’avessi desiderato.

Pranzai alla svelta, felice e impaziente di partire per quella piccola spedizione, poi corsi in camera a cambiarmi, sperando di trovare nel mio armadio qualche abito semplice e adatto per le escursioni nei boschi. Ne trovai uno che lo sembrava: era un semplice abitino bianco a fiori blu, senza fronzoli che potessero impigliarsi, né gonne troppo larghe o gonfie da impedire i movimenti.

Indossato l’abito presi le stampelle ricordandomi l’avvertimento del dottore, e scesi di nuovo al piano di sotto, dove Stevenson e gli altri erano già pronti a partire.

«Datele pure a me,» disse il maggiordomo, allungando le mani per afferrare le stampelle. Non mi sembrava giusto fargli portare qualcosa per conto mio – anche se, a ben pensarci, poco prima aveva portato dei libri per me fino in camera dove li aveva appoggiati sul comodino in una pila ordinata –, quindi un po’ titubante, gli cedetti le stampelle. Lui mi sorrise e, come di consueto, mi fece segno di precederlo.

Abigail saltellava contenta mentre Julie, più pacata, stava in disparte con però una luce felice negli occhi e Lewis sorrideva raggiante, tenendo tra le mani un piccolo cestino.

«Nel caso vi venisse fame, Contessa,» mi spiegò, quando notò che lo fissavo, francamente la mia idea iniziale era quella di fare una rapida passeggiata nei boschi e poi tornare, non avevo pensato di passare così tanto tempo fuori, ma ora l’idea di fare un picnic tra la natura non mi dispiaceva affatto.

Uscimmo tutti insieme: io camminavo al fianco di Abigail e Julie, Stevenson e Lewis dietro di noi.

Mi sentivo un po’ in colpa a trascinarli via dai loro impegni solo per assecondare il mio capriccio, ma dalle loro facce mi era parso di notare che fossero tutti felici di quell’inaspettato passatempo, quindi cercai di non pensarci troppo. Costeggiammo la casa seguendo la strada, dirigendoci verso est e, mentre la fila dei primi alberi si faceva sempre più vicina, l’ansia iniziò a crescere in me, forse dopotutto quella non era stata una buona idea, i palmi iniziarono a sudarmi e il fiato entrava sempre più a fatica nei polmoni. Forse dovevamo tornare indietro, dovevamo…

«Volete sapere l’ultima novità dalla fattoria Patrick?» la voce di Abigail risuonò alta e cristallina tra di noi, riscuotendomi dai miei pensieri e attirando la mia attenzione.

«Oh, signore,» sospirò Stevenson alle nostre spalle, «cos’è successo di nuovo

Abigail rise, lanciandomi un’occhiata complice.

«Dovete sapere che la signora Patrick è un’arzilla signora che abita dall’altra parte del bosco, ogni tanto andiamo a vedere come se la cavano lei, il marito e i suoi due figli e portiamo qualcosa in regalo.» Sorrise guardando dritta davanti a sé, negli occhi un improvviso lampo di tristezza e malinconia. «La signora Patrick però soffre di un brutto male che ogni tanto le fa fare cose folli, ma non fraintendetemi, non è una follia cattiva la sua, solo che di quando in quando fa cose assurde che a raccontarle non ci si crede!»

Sentii Stevenson, Julie e Lewis sospirare, come se sapessero bene di cosa Abigail stesse parlando.

«Proprio ieri, siamo andate a trovarli. Immaginate la nostra preoccupazione quando, arrivate lì, il signor Patrick ci è venuto incontro preoccupato perché non riusciva più a trovare sua moglie!» il tono di Abigail si fece più greve. «Ovviamente ci siamo tutti spaventati molto e abbiamo iniziato a cercarla ovunque assieme alla sua famiglia.»

Si fermò un istante, lasciandomi con il fiato sospeso, la mia mente preoccupata che vedeva già ogni possibile finale catastrofico per quella storia. «Alla fine, il figlio maggiore, David, ci ha chiamati tutti a raccolta davanti al pollaio e ci ha invitato gentilmente, ma a bassissima voce, a guardare al suo interno.» Abigail cercava di trattenersi dal sorridere. «Immaginatevi la faccia del povero signor Patrick quando abbiamo trovato sua moglie china sopra una delle postazioni di cova delle loro galline.»

Si schiarì un poco la voce e proseguì: «“Prudence, cosa diavolo ci fai lì dentro?” ha esclamato scioccato lui, e lei l’ha guardato malissimo, scacciandolo con un gesto brusco della mano. “Lasciami in pace, Bob, non lo vedi che sto deponendo le uova? Mi deconcentri”

Scoppiai a ridere, sentendo gli altri ridacchiare attorno a me.

«La signora Patrick,» continuò Julie sorridendo apertamente, «riesce sempre a risollevare l’umore collettivo.»

E in effetti aveva ragione, malgrado a ben pensarci, stavamo ridendo dei problemi di una signora.

«È davvero una donna splendida,» annuì Abigail, «solo che ogni tanto fa queste follie facendo venire a tutti una gran paura.»

La ragazza si voltò verso di me, il suo sorriso aveva un ché di triste, che non riuscii a comprendere in quel momento. «Ma loro poi si vendicano prendendola in giro, quindi direi che in un certo qual modo hanno trovato un loro equilibrio nel gestire la situazione.»

Un equilibrio che però a occhi esterni non sembrava molto bilanciato, ma che evidentemente per loro funzionava, alla fine come ricordai a me stessa, ogni famiglia aveva le sue particolarità e i suoi problemi.

«Allora, Contessa, vi sta piacendo il nostro bosco?»

Sbattei le palpebre e guardai Abigail che mi sorrideva coriale, ogni traccia di tristezza sparita dal suo volto e solo in quel momento mi resi conto che, effettivamente, stavamo camminando nel bosco già da qualche minuto. Ero così presa dal racconto che non me ne ero resa conto e, in quell’istante, tutta l’ansia che avevo provato poco prima era svanita. Sorrisi, incapace di esprimere diversamente la mia gratitudine per quello che aveva fatto, per quello che tutti loro avevano fatto, senza che io me ne rendessi conto.

«Sì, è meraviglioso,» mormorai, con un piccolo nodo alla gola.

 

Passeggiammo senza fretta, immersi nella calma e nei placidi rumori della natura. Il sentiero che percorrevamo era ben tenuto, segno che molte persone passavano abitualmente di lì, magari proprio per andare a trovare la signora Patrick o fare altre commissioni di cui non sapevo nulla. Ascoltavo affascinata il cinguettio degli uccelli e il dolce frusciare delle foglie spostate dalla brezza lieve che soffiava quel giorno. Sembrava tutto così meravigliosamente sereno.

Alle mie orecchie, arrivò il rumore lontano di acqua che fluiva e, curiosa, decisi di andare a esplorare in quella direzione. Per seguire il rumore dell’acqua però, dovetti lasciare il sentiero battuto e avanzare nel sottobosco.

«Volete andare a vedere il fiume?» chiese Julie accostandosi a me, che mi ero fermata titubante sul bordo del sentiero.

«È poco più avanti, non dovremo percorrere molta strada, c’è pure una cascata!»

Bastò l’idea di poter vedere una vera cascata a farmi prendere coraggio e compiere il primo passo sul terriccio non battuto. Avanzai cauta, sempre con Abigail e Julie al mio fianco, Lewis e Stevenson dietro.

Esattamente come mi aveva detto Julie, dopo poco i fitti alberi si diradarono e ci trovammo in una piccola radura con al centro il fiume che scorreva placido. La cascata non era così imponente come me l’ero immaginata, ma aveva il suo perché. Mi piaceva molto.

Decisi di rimanere lì e chiesi a Lewis di tirare fuori le vivande per tutti. In un primo momento parvero tutti incerti, non sapendo se mangiare o meno davanti a me, ma dopo che li ebbi incoraggiati nuovamente, iniziarono ad addentare i loro panini senza più tanti complimenti. Mangiammo avvolti in un tranquillo silenzio, comodamente seduti sull’erbetta verde e quando arrivò l’ora di rincasare, mi scoprii a sperare di poter ripetere un’uscita del genere il prima possibile.

 

La sera, Stevenson mi aveva obbligata a rimanere a riposo poiché durante il ritorno dalla nostra piccola gita fuori porta, gli avevo chiesto le stampelle sentendo che il piede iniziava a dolermi.

«Non voglio certo rischiare che vi succeda qualcosa mentre Leo non c’è,» aveva dichiarato, buttando al vento ogni formalità mentre mi scortava in camera. «Mi ammazza se sa che vi siete fatta male quando eravate sotto la mia responsabilità!»

Ridacchiando, mi ero sistemata sul letto, sollevando il piede scalzo su un piccolo cuscino quadrato e mi ero data alla lettura, aspettando impaziente il momento in cui avrei rivisto Leo. Quello finché il maggiordomo non era tornato a bussare alla mia porta.

«Perdonatemi,» iniziò con un’espressione così corrucciata da farmi subito scattare a sedere, attenta. «A quanto pare gli impegni del padrone gli prenderanno più tempo del previsto…» disse e io mi accigliai, non capendo il perché di tutta quella formalità improvvisa, «dice che potrebbe volerci qualche giorno prima che faccia ritorno,» concluse, fissando il telegramma che aveva tra le mani, e io sentii la bolla di felicità che avevo provato per tutto il giorno, scoppiare brutalmente riportandomi a scontrarmi con la dura realtà. Lo ringraziai per la notizia, con una voce terribilmente monocorde e priva di qualsiasi emozione.

«Inoltre…» riprese lui, guardandomi con espressione afflitta, «è appena arrivato un ospite.»

Rimasi un attimo interdetta, non sapendo bene cosa dire né tanto meno cosa fare in una situazione simile.

«Chi è?» chiesi mentre mi spostavo sul letto, mettendo il piede a terra e infilandomi la scarpa.

«Il Marchese di Lothian, contessa. Andrew Kerr.»

Quel nome non mi diceva assolutamente niente, tuttavia in assenza di Leo spettava a me accogliere l’ospite.

Chiesi a Stevenson di accompagnarmi da lui e scendemmo lentamente la scala, per non gravare sul mio piede dolorante.

Arrivati quasi in fondo, vidi un uomo fermo di spalle in mezzo all’atrio, le mani giunte dietro la schiena, ipotizzai che fosse il marchese e, quando udendo i nostri passi, si voltò nella nostra direzione, per poco non inciampai sulle scale.

Conoscevo quel volto, non avrei potuto dimenticarlo con facilità.

Era il ragazzo che avevo visto nel salotto la sera in cui avevo discusso con Leo.

Lui non parve accorgersi del mio turbamento e si inchinò profondamente davanti a me, baciandomi la mano.

«Signorina, sono lieto di fare finalmente la vostra conoscenza,» dichiarò con voce cordiale, sorridendomi affabile. Io cercai di restituirgli il sorriso, ma ero nervosa.

«Marchese, mi rincresce avervi fatto attendere, ditemi a cosa dobbiamo la vostra gradita visita?»

Non ero abituata a parlare con la nobiltà, men che meno con un uomo adulto di rango superiore a quello della mia famiglia.

«In realtà, ero venuto per discutere di affari con vostro zio,» mormorò quasi sovrappensiero, «ma mi è stato riferito che non è in casa.»

Annuii mortificata. «Mi rincresce ma è vero, i suoi affari lo hanno trattenuto altrove.»

Lui sospirò sconsolato e d’istinto mi trovai a parlare ancora prima di aver formulato il pensiero nella mia mente.

«Per scusarci dell’inconveniente e per non avervi fatto compiere un viaggio a vuoto, perché non vi fermate a cena?»

Lui sorrise, chinando leggermente il capo. «Vi ringrazio per la vostra gentile offerta e vi confesserò, in realtà speravo di approfittare dell’ospitalità del signor Fortescue per qualche giorno.»

Deglutii irrigidendomi, il marchese voleva stabilirsi da noi per qualche giorno? Era scortese rifiutare? Ma soprattutto, ero nella posizione di poter accettare?

Sentii il panico montare come un’onda dentro di me.

Il marchese mi sorrise comprensivo. «Vi ho forse messa a disagio con la mia richiesta? Posso andarmene se preferite.»

«No,» scattai, più rapidamente e rumorosamente di quanto fosse educatamente consentito, «restate pure. Stevenson,» continuai con tono più tranquillo e moderato voltandomi verso il maggiordomo, «per cortesia, fate sistemare il nostro gradito ospite in una stanza del secondo piano e informate la cucina del suo arrivo.»

Lui annuì serio e si rivolse al marchese, inchinandosi profondamente.

«Prego, vogliate seguirmi, vi mostrerò i vostri alloggi.»

Il marchese sorrise a entrambi, gioioso, e con un inchino e la promessa di ritrovarci a cena, salì le scale tallonando Stevenson.

Io rimasi lì, impalata, con le mani sudate e il fiato corto.

In quel momento, avrei solo voluto avere accanto Leo, sentirlo circondarmi le spalle con una delle sue forti braccia e tirarmi a sé, mormorandomi contro i capelli che sarebbe andato tutto bene, che si sarebbe occupato lui di tutto e che io me ne sarei potuta stare tranquilla in disparte, evitando così di fare errori. Invece, Leo non c’era, né sapevo quando sarebbe tornato.

Ero sola, in compagnia di un uomo che non conoscevo ma che era in affari con lui. Se avessi detto la cosa sbagliata o mi fossi comportata in modo strano, rischiavo di mettere in cattiva luce il mio Signore.

Strinsi i pugni, voltandomi e tornando rapidamente in camera, determinata più che mai a far andare tutto al meglio, così che Leo potesse essere orgoglioso di me.


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