Capitolo 18

 

“Devo partire per un viaggio. Per un po’ non potrò leggere le tue lettere,

ma tu non smettere di inviarmele, risponderò a ognuna di esse.”

 

 

“Allora ti scriverò ogni giorno.”

 

 

Quando entrai in sala per la cena, trovai il marchese già seduto, alle sue spalle un uomo che non conoscevo, probabilmente il suo maggiordomo personale. Un uomo slanciato e dall’aria terribilmente severa, con splendidi capelli di un nero intenso e incredibili occhi di un blu così chiaro da sembrare di ghiaccio. Quando mi vide entrare, il marchese si alzò dalla sedia e mi fece un lieve inchino, gli sorrisi avvicinandomi e prendendo posto di fronte a lui, mentre i camerieri iniziavano a servire la prima portata.

«Gli alloggi di vostro gradimento?» m’informai di slancio, lui annuì entusiasta.

«Oh, sì, la stanza è molto luminosa e spaziosa. Al secondo piano poi si gode di una vista meravigliosa dell’intero circondario. Magnifico, davvero.»

Assentii e non sapendo cos’altro aggiungere, mangiammo in silenzio per diversi minuti poi lui tornò a sollevare lo sguardo su di me.

«Perdonatemi. So che vi sembrerò tremendamente scortese, ma posso chiedervi perché vostra madre vi ha tanto in antipatia?»

Mi fermai con la forchetta a mezz’aria, in quell’istante, mi parve che anche tutto il resto della sala avesse fatto lo stesso, che i camerieri si fossero bloccati con le portate tra le mani, che i rispettivi maggiordomi stessero trattenendo il fiato, in attesa.

«Ecco…» iniziai, terribilmente imbarazzata da quella domanda così diretta, «sinceramente, non saprei proprio dirvi.»

Lui aggrottò la fronte, ponderando qualche istante, gli occhi fissi sul mio volto senza però vederlo sul serio. Alla fine si riscosse, liquidando la faccenda con un gesto vago della mano e affermando: «Immagino che siano problemi suoi.»

Afferrò un pezzo di pane e masticandolo sonoramente, senza un minimo di grazia, con la coda dell’occhio vidi il suo maggiordomo assottigliare lo sguardo, evidentemente non approvava il comportamento del suo padrone.

«Lasciatemi dire però che fu veramente scortese nei vostri confronti, quando venimmo a trovare Fortescue durante la vostra degenza. Fui sinceramente contento quando l’ebbe finalmente sbattuta fuori.»

A quelle parole, ogni mio muscolo si tese, all’erta. Il marchese c’era quando Leo aveva discusso con mia madre, lui forse poteva raccontarmi cosa fosse successo quella mattina. Ogni mio interesse per il cibo svanì e mi concentrai totalmente sull’uomo seduto davanti a me.

«Non fatico a crederlo, fidatevi,» iniziai, soppesando con cura ogni parola. «Sareste così gentile da raccontarmi cosa accadde quella mattina?»

Il suo volto si illuminò, come se gli avessi appena regalato un tesoro meraviglioso, dietro di lui, il maggiordomo sospirò, consapevole di cosa stava per succedere e rassegnato a subirne le conseguenze.

«Sono lieto che me l’abbiate chiesto!» esclamò lui sorridendo e facendosi più vicino, con fare quasi drammatico, sebbene a dividerci ci fosse un’intera tavola con cibo e bevande. «Quella mattina ci stavamo preparando per partire. Sapete, eravamo venuti per fare la vostra conoscenza, ma purtroppo il vostro incidente ce l’aveva impedito.» Aggrottò la fronte pensieroso, come se solo in quel momento si fosse ricordato di un fatto importante. «A tal proposito, non vi ho nemmeno chiesto come state adesso. Chiedo venia, quando sono emozionato dimentico le buone maniere.» E ridacchiò, io scossi lievemente il capo, cercando di sorridere serena.

«Non vi preoccupate, sto bene, mi sto rimettendo molto in fretta, non c’è bisogno che vi scusiate.»

Lui annuì profusamente. «Bene, ne sono lieto,» poi fece giusto una pausa per riprendere fiato e continuò, «tornando al racconto, dovevamo incontrare voi ma si era rivelato impossibile, quindi ci stavamo preparando a fare ritorno alle nostre tenute. Quella mattina però Fortescue era alquanto alticcio, pensate che si presentò al tavolo per la colazione con gli stessi abiti della sera prima!» la sua voce salì impercettibilmente, narrandomi quella parte di storia, come se per lui indossare gli stessi abiti due giorni di fila fosse un’autentica eresia. «Iniziò a rispondere male a chiunque provasse a porgergli qualche domanda, personalmente mi guardai bene dal rivolgergli la parola, sembrava pronto a uccidere qualcuno.» Nonostante la mole non proprio esigua del mio ospite, lo vidi rabbrividire al ricordo della furia di Leo. «Vostra madre però, evidentemente cercava lo scontro, o aveva istinti suicidi quel giorno. Non l’ho ancora ben capito. Perché, nonostante il palese malumore del padrone di casa, iniziò a rimproverarlo per la sua grave incuria, per la mancanza di rispetto che aveva avuto nei nostri confronti, e lui…» sollevò le mani chiuse a pugno e le aprì di scatto, «esplose, l’afferrò per un braccio, costringendola a sollevarsi dalla sedia e le urlò in faccia che donne come lei meritavano solo di finire in mezzo a una strada a prostituirsi nel peggiore dei modi, per poi essere sgozzate e lasciate a morire dissanguate in mezzo al pattume.» Si bloccò guardandomi dritto in faccia, abbassò gli occhi sul cibo e poi nuovamente su di me.

«Forse…» disse lentamente, «non avrei dovuto raccontarvelo in modo così dettagliato.»

«No, vi prego!» esclamai, totalmente rapita dal suo racconto e desiderosa di saperne di più. Mi si stringeva il cuore ad appurare che il comportamento di Leo quella mattina era stato solo colpa mia, ma allo stesso tempo ero felice di sentire cosa fosse successo. Quasi desideravo essere stata presente per averne potuto godere in prima persona.

«Vi prego,» ripetei con tono più gentile, «continuate, non mi impressiono.»

Lui parve estremamente combattuto, tra la voglia di riprendere e la buona educazione che gli imponeva di evitare certi discorsi davanti a innocenti fanciulle, specialmente durante i pasti. Alla fine, prevalse il suo lato ciarliero.

«Ebbene, dopo quelle parole, vostra madre era oltremodo adirata, più del solito si intende. Gli strillò che era un miserabile vile e che sarebbe dovuto morire anni prima, che era solo colpa dei Fortescue se la sua vita era stata rovinata per sempre e che meritavate tutti di morire.»

Assorbii in silenzio, e senza cercare di scompormi troppo, quel colpo indiretto che mia madre aveva scagliato contro di me, per evitare che il mio ospite smettesse di parlare. Fortunatamente, era troppo assorbito dal racconto per farlo.

«Leo perse ogni controllo, la trascinò letteralmente da questa sala da pranzo fino all’atrio e la scaraventò a terra intimandole di andarsene nel giro di un’ora o lui l’avrebbe fatta sparire per sempre.» Il marchese aprì la bocca ridendo, evidentemente ancora parecchio sorpreso da quegli eventi. «Uno spettacolo terrificante e stupendo insieme, credetemi. Poi, ovviamente, vostra madre iniziò a piangere e la Duchessa di Cavendish si intenerì.» Scosse la testa, come se lo credesse un comportamento incredibile. «Quella donna ha la lingua lunga e le piace tormentare le persone, ma si scioglie come neve al sole quando vede qualcuno piangere. È particolare, ma del resto, ogni conoscenza di Fortescue lo è, dico bene?»

Mi trovai ad annuire automaticamente, Leo era circondato da molte persone estremamente singolari, me compresa.

«Alla fine, la duchessa si offrì di riportarla a Londra e le due donne partirono di lì a un’ora come aveva ordinato Fortescue.» Sorrise raggiante, infilandosi un boccone di arrosto tiepido in bocca. «Non lo trovate emozionate?» chiese mentre masticava. Il maggiordomo dietro di lui sospirò di nuovo. Io tornai a posare gli occhi sul mio piatto, felice d’aver scoperto cosa fosse successo, ma allo stesso tempo un po’ stranita da tutto l’accaduto.

«Sì, emozionate,» risposi, riprendendo a mangiare. Leo era stato veramente brutale e, nonostante fossi convinta che mia madre se lo meritasse, non potevo fare a meno di domandarmi cosa gli desse tanta sicurezza d’agire in tal modo. Dopotutto, aveva aggredito e minacciato di morte la moglie del fratello, una contessa, e l’aveva fatto davanti a dei testimoni, due dei quali con un titolo nobiliare ancora più prestigioso. Quella era una faccenda che poteva finire molto male, eppure, lui non sembrava averci pensato due volte; cosa gli dava la sicurezza che le sue azioni sarebbero rimaste impunite?

Avrei tanto voluto scoprire di più, a conti fatti se il marchese era in affari con Leo, qualcosa più di me sul suo conto doveva pur saperla, ma in quel momento, non credevo di poter reggere un altro dei suoi coloriti racconti.

 

La cena proseguì su toni più tranquilli, alla fine riuscii anche a ritirarmi nelle mie stanze a un orario quasi tollerabile. Chiusa a chiave la porta mi lasciai andare con un sospiro contro di essa.

Il marchese non mi sembrava una persona cattiva, eppure ritenevo che chiudere a chiave fosse l’opzione migliore, almeno per il momento. Mi sfilai lentamente l’abito e disfeci l’acconciatura, lasciando ricadere liberi i capelli. Mi massaggiai la testa per alleviare il dolore causato dalle forcine strette. Ero mentalmente esausta, avevo passato solo qualche ora in compagnia del nuovo arrivato e nonostante tutto mi pareva fosse passato un giorno intero. Non capivo come le donne dell’alta società potessero sottoporsi volontariamente e con gioia a quella tortura ogni giorno. Mi infilai sotto le coperte, sperando di aver fatto buona impressione e di non aver commesso errori troppo esagerati.

Guardai la luce fioca della luna illuminare debolmente la stanza attraverso le imposte chiuse e mi domandai dove fosse Leo, se anche a lui mancassi con la stessa intensità con cui lui mancava a me. Sospirai voltandomi su un fianco e chiudendo gli occhi, sperando che il sonno arrivasse presto.

La mattina dopo, scendendo per colazione, trovai ad attendermi nell’atrio il maggiordomo del marchese, l’uomo mi si avvicinò e si inchinò profondamente davanti a me. «Sono desolato,» iniziò con tono lento e controllato, «il mio padrone si scusa, ma non riuscirà a raggiungervi per la colazione.»

Sorpresa, cercai di capire cosa fosse successo al mio ospite.

«Sta forse male? Desiderate che mandi a chiamare il dottore?»

Il maggiordomo sorrise, chinando lievemente il capo.

«Non ce n’è bisogno, vi ringrazio. Sta solo riposando.»

Sperai che non fosse una scusa per evitarmi, perché se da una parte ero felice di non essere costretta a comportarmi da padrona di casa cortese, dall’altra il fatto che mi evitasse poteva voler dire che l’avevo in qualche modo offeso. E questo non andava affatto bene.

Il maggiordomo senza aspettare una mia replica si inchinò ancora e, superandomi, si incamminò su per le scale, diretto nella stanza che del mio ospite.

Io entrai pensierosa in sala, rivivendo mentalmente tutto quello che era successo la sera prima e cercando qualcosa che potessi aver detto o fatto di così grave da offendere l’ospite.

Ci pensai e ripensai tutto il giorno, quando non lo vidi comparire né a pranzo né a cena, mi convinsi sempre di più d’aver fatto qualcosa di terribile senza che me ne fossi resa conto. Mi ritirai in camera e mi chiusi dentro, con solo la voglia di gettarmi sul letto e piangere. Se il marchese era offeso, potevo aver compromesso gli affari di Leo, potevo averlo deluso, e questo non riuscivo davvero a sopportarlo.

 

Durante la notte, quando alla fine capii che non sarei riuscita a dormire, decisi di prendere coraggio e compiere un gesto folle. Scesi dal letto e, infilate ciabatte e vestaglia, uscii dalla mia camera, salendo al secondo piano.

In quel momento sentii la pendola al piano di sotto battere le undici e sperai in cuor mio, che non fosse troppo tardi e che con il mio gesto non stessi peggiorando ancora di più la situazione.

Arrivata al secondo piano però, mi resi conto di non sapere quale fosse la stanza del marchese, tuttavia non mi scoraggiai più di tanto, e iniziai a percorrere lentamente il corridoio, osservando le fessure sotto le porte, nella speranza di vedere qualche bagliore che mi potesse suggerire la presenza di qualcuno all’interno.

Alla fine, non fu la luce a guidarmi, ma i rumori. Dal fondo del corridoio sentii arrivare dei suoni attutiti e delle voci sommesse, accelerai il passo ma, quando fui più vicina da poter distinguere chiaramente il significato di quelle parole, mi bloccai.

«Hai imparato la lezione?» udii dire da quella che riconobbi come la voce del maggiordomo, poi un gemito attutito che poteva provenire solo dal marchese. 

Sentii il maggiordomo ridere piano. «Pensi di comportarti ancora in modo così scortese quando sarai a tavola con una signorina?»

Un altro gemito, più lungo del precedente, un’altra risata lieve.

«Bene, allora credo di poterti togliere questo.»

Seguirono dei passi attutiti dal tappeto e il cigolio delle molle del letto. Il cuore mi batteva all’impazzata, non poteva essere quello che la mia mente si stava immaginando, eppure…

«Devi dirmi qualcosa, Andrew?»

Mi avvicinai ancora di più alla porta, sperando di riuscire a scorgere qualcosa dalla serratura, sfortunatamente, la chiave era inserita e mi ostruiva la vista, riuscii però a udire la risposta, ansante ma chiara: «Grazie, Padrone.»

Scattai all’indietro, quasi quelle parole mi avessero scottata, non mi sarei dovuta trovare lì e, sicuramente, non avrei dovuto ascoltare quella conversazione. Mi voltai e ripercorsi rapida la strada per tornare in camera mia, cercando di essere il più silenziosa possibile. Non riuscivo a credere a quello che avevo sentito, non riuscivo a credere che il marchese fosse… come me.

Rientrai in camera col fiatone, evitando di chiudere a chiave la porta, immaginai non ce ne fosse bisogno. Ripensandoci, non potei fare a meno di sorridere tornando sotto le coperte. Nonostante la mia ritirata improvvisa, ero riuscita a scoprire perché il marchese fosse stato costretto a letto tutto il giorno e, da quanto avevo appreso, costretto era proprio il termine più adatto.

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