Capitolo 7
Non
era mai stata mia intenzione ingannarlo, né prendermi gioco di lui senza che lo
venisse a sapere. Era iniziato tutto, come sempre, per colpa di mia madre,
esattamente quattro anni prima. Fino a quel momento avevo sempre sentito solo
voci su mio zio, in diciannove anni non avevo mai visto una sua lettera o avuto
sue notizie per via indiretta, solo ricordi del passato. Per me era solo un
nome senza un volto, una parentela senza affetto.
Fino
a quel giorno.
Ero
reduce da una nottata insonne, passata a camminare avanti e indietro in camera
mia come spesso accadeva quando non riuscivo a placare la mia mente inquieta,
eravamo tutti seduti al tavolo della colazione quando, improvvisamente, Joseph
aveva comunicato a mio padre che era arrivato un telegramma dall’America: un
telegramma dello zio.
La
notizia aveva suscitato non poco stupore in noi tanto che papà non aveva
nemmeno aspettato di essere solo per leggerlo.
Nel
telegramma, che però si scoprì non essere stato inviato dallo zio ma da un suo
fidato amico, si diceva che Leo era, a causa di un incidente, gravemente ferito
e rischiava di non superare l’inverno. All’interno era stata appuntata anche la
sua attuale posizione, nel caso avessimo voluto tentare di raggiungerlo per
dargli un ultimo saluto prima che fosse troppo tardi.
Per
me, sarebbe stato logico prendere e imbarcarsi sulla prima nave in partenza,
per il resto della famiglia non molto. Economicamente, allora, già non
navigavamo in buone acque e come disse mio padre, per quanto amasse il fratello
doveva pensare anche a sfamare la propria famiglia, quindi a malincuore
dovevamo rimanere in Inghilterra e pregare con tutto noi stessi che guarisse.
«Dovremmo
scrivergli una lettera,» suggerì il nonno, quando venne messo al corrente dei
fatti.
«Anche
se non fosse nelle condizioni di poterla leggere, qualcuno lo farà per lui e saprebbe
perché non abbiamo potuto raggiungerlo.»
Dopo
molto tempo passato a discutere, il compito di scrivere tale missiva ricadde su
mia madre, anche se nessuno dei presenti ne era entusiasta; nonno l’avrebbe
scritta volentieri ma soffriva di un violento tremore alle mani che gli
impediva di tenere saldamente qualsiasi oggetto, e mio padre… lui non era
proprio adatto a scrivere quel genere di lettere.
Mamma
sembrò accettare di buon grado il suo compito, anche se sempre con la tipica
freddezza che sfoggiava solo quando doveva rivolgersi a un membro della
famiglia Fortescue.
Sembrava
essersi tutto risolto quindi: lei avrebbe scritto la lettera e noi ce ne
saremmo lavati le mani, sentendoci a posto con la coscienza.
I
giorni però passavano e mamma non accennava a scrivere nulla, sembrava
essersene dimenticata e nessuno in famiglia faceva nulla per ricordarglielo. Mi
sentivo terribilmente in colpa ogni ora che passava senza che quella missiva venisse
spedita, così, chiamando a raccolta il poco coraggio che avevo nelle viscere,
mi arrischiai a chiedere alla diretta interessata. Non dimenticherò mai
l’occhiata che mi lanciò in quell’occasione, così austera e altezzosa, col
mento leggermente sollevato, come se stesse fissando qualcosa di putrido che le
era finito per sbaglio vicino.
«Non
ho nessuna intenzione di perdere tempo e sporcarmi le mani per scrivere una
lettera che tanto verrà consegnata a un cadavere. Che morisse pure credendosi
solo e abbandonato. Un Fortescue in meno!»
Avevo
i pugni pallidi tanto li stavo stringendo, avrei voluto urlarle in faccia che
era una donna terribile e che se c’era qualcuno di quella famiglia che sarebbe
morto solo e abbandonato, quella sarebbe stata lei.
Invece,
uscii dalla sala, determinata per quanto possibile a non dargliela vinta,
almeno non quella volta.
Così,
semplicemente, mi chiusi in camera e iniziai a scrivere; iniziai e terminai
decine di lettere che però mi trovavo a scartare e appallottolare. Niente di
quello che dicevo sembrava sensato, nessuna scusa veramente sentita, non se a
dirle era una ragazzina di diciannove anni. Non volevo che si sentisse preso in
giro – anche perché già sapevo cosa sarebbe stato capace di fare, ferito o meno
– quindi, iniziai a scrivere una nuova lettera, cercando di sembrare il più
adulta possibile e decidendo quindi di firmarmi col nome di mia madre.
La
stesura di quella prima lettera fu difficile, non sapevo nemmeno in che
rapporti fossero mia madre e lo zio, non sapevo se dovevo scrivere in modo
allegro e cordiale oppure freddamente gentile. Alla fine, optai per la prima;
anche volendo, non sarei mai stata capace d’essere fredda. Gli raccontai del
telegramma, del problema monetario che ci impediva di raggiungerlo, chiesi
informazioni su di lui e sulla sua ferita e mi scusai, mi scusai per tutto,
mentalmente pensai che mi stessi scusando anche per quell’inganno, solo che lui
quello non l’avrebbe mai saputo. Cercai anche di tirarlo un po’ su di morale,
raccontandogli alcuni fatti accaduti a Londra negli ultimi tempi, speravo di
strappargli almeno un sorriso, forse l’ultimo. Come avrei scoperto in seguito,
i sospetti sorsero in Leo già leggendo quella prima lettera. Eppure sul momento
mi era parsa perfetta sotto ogni aspetto.
Quando
finalmente l’ebbi sigillata, mi sembrò di aver corso per miglia e miglia tanto
mi sentivo stanca e spossata.
La
mattina dopo, quando mia madre ancora dormiva, andai da mio padre per
consegnargli la missiva, lui sollevò un sopracciglio, perplesso.
«L’ha
davvero scritta, alla fine?» chiese, e sembrava sinceramente stupito. Annuii
passandogli la busta e pregando con tutto il cuore che non capisse la verità.
Per fortuna, visto che i miei genitori non si scambiavano mai convenevoli né
parlavano tra di loro se non ce n’era estremamente bisogno, dubitavo fortemente
che l’argomento sarebbe stato mai più sollevato, quindi ero relativamente certa
da quel lato di non essere scoperta, ma la lettera doveva partire e se mio
padre si fosse accorto che la grafia dell’indirizzo non era quella della moglie
tutto sarebbe andato in malora.
Per
fortuna, non si curò affatto della cosa e mise la busta nella pila di posta che
avrebbe dovuto spedire quello stesso giorno, ringraziandomi per avergliela
portata e congedandomi. Uscii dal suo studio, raggiante, finalmente ero
riuscita, in un certo qual modo, a ribellarmi al volere di mia madre. Per me
era un gran giorno quello e mai mi sarei aspettata che, qualche mese dopo, sarebbe
giunta una risposta.
In
quel caso, posso dire che la fortuna fu un po’ dalla mia parte. La posta veniva
consegnata sempre di mattina e, visto che mio padre aveva una fitta
corrispondenza, spesso arrivavano molte lettere tutte assieme. Lui ne
controllava il destinatario una a una e poi, ancora sigillate, le dava a me nel
caso in cui ce ne fosse stata qualcuna indirizzata a mia madre o a me.
Non
erano mai arrivate lettere per me, ma per lei sì e, dato che lui non voleva
averci niente a che fare, affidava a me quel fardello.
Quella
mattina, come ogni altro giorno, me ne stavo seduta in cucina con Molly quando
Joseph mi chiamò per comunicarmi che mio padre aveva della corrispondenza da
affidarmi. Rassegnata a dover quindi affrontare mia madre appena sveglia – il
momento della giornata in cui era più odiosa – mi incamminai verso l’ufficio di
mio padre.
«Ah,
buongiorno cara,» mi salutò lui vedendomi entrare, io risposi al saluto
avvicinandomi alla sua scrivania sommersa come sempre da scartoffie varie,
«sono arrivate alcune lettere per tua madre, potresti portargliele
gentilmente?»
Me
lo chiedeva ogni volta e io ogni volta mi domandavo cosa avrebbe detto se gli
avessi risposto di no. Magari avrebbe capito che nemmeno io avevo voglia di
girare troppo attorno a sua moglie. Presi le quattro lettere con un mezzo
sorriso rassegnato e uscii dalla stanza.
Mentre
salivo le scale, però, una di esse catturò la mia attenzione.
Mamma
riceveva sempre lettere sigillate in buste lisce, talvolta profumate o
colorate, quella invece era un ruvido pezzo di carta giallognola, con un oscuro
sigillo di ceralacca, puzzava anche un po’ di qualcosa che non seppi
identificare, sembrava fango misto a polvere da sparo.
Guardai
l’indirizzo scritto e rimasi a fissare per un lungo istante quella grafia, non
era per niente quella di una donna; possibile che mia madre si fosse trovata un
nuovo amante? Mi sembrava strano, ogni suo amico l’aveva garbatamente ma
esplicitamente allontanata quando si era sparsa la voce che la famiglia stava
lentamente cadendo in disgrazia, i pochi che le erano rimasti attorno erano
spariti subito dopo l’incendio, avvenuto ormai tre anni prima.
Ma
allora, mi chiesi, se non era un amante chi poteva essere?
La
mia mente ebbe un guizzo proprio un attimo prima che bussassi alla porta di mia
madre.
Poteva
essere lo zio o, al limite, qualcuno che scriveva per suo conto; non potevo
certo rischiare che mamma la leggesse.
Decisi
quindi di tenere per me quella lettera, nascondendola velocemente sotto al
tappeto prima di entrare. Per fortuna, lei dormiva ancora, quindi, piuttosto
che svegliarla, le lasciai le lettere sul suo tavolino personale e mi richiusi
la porta alle spalle il più silenziosamente possibile.
Recuperai
la lettera e mi precipitai in camera mia.
La
aprii con dita tremanti, staccando piano il sigillo senza rovinarlo, così da
poterlo eventualmente riattaccare nel caso in cui la lettera fosse stata di
qualcun altro.
Ma
non mi ero sbagliata, era Leo.
Mi
ringraziava per le mie parole e mi informava che la sua ferita era meno grave
di quanto non ci avessero comunicato, non scendeva però nei dettagli in merito
al tipo di ferita né come se la fosse procurata, ma lì per lì la cosa non mi
stupì molto, immaginavo non volesse descrivere a una donna un episodio doloroso
e sanguinolento. Mi disse inoltre che sapeva delle condizioni economiche in cui
versava la famiglia e che non ce ne faceva una colpa; mi scrisse che aveva
gradito molto il mio racconto sulla fauna
locale, come la chiamava lui, e che per sdebitarsi, mi avrebbe raccontato
qualcosa che gli era capitata in America. Conclusa la lettura, mi sentii
moralmente obbligata a rispondergli ma anche curiosa di scoprire chi fosse
quell’uomo così misterioso di cui tutti parlavano con un misto di timore e
rispetto. Quello fu il nostro primo contatto, la scintilla che diede il via a
tutto.
Firmarmi
con il nome di mia madre mi faceva male, in ogni lettera volevo confessargli la
verità, volevo scusarmi con lui e implorare il suo perdono, ma più la
corrispondenza proseguiva, più ne sentivo il bisogno e avevo il terrore che,
confessando, sarebbe cessata completamente. Quindi per quattro anni presi in
prestito il nome di mia madre, per quattro anni parlai attraverso lei, mettendo
a nudo sempre più parti della mia anima.
Poi,
con estrema naturalezza successe.
Le
lettere da cordiali e scherzose, iniziarono lentamente ad assumere toni più
spinti, certamente non adatti agli occhi di un’illibata fanciulla che non era
mai nemmeno stata corteggiata e che arrossiva e si imbarazzava oltre ogni dire
solo a leggerle.
Quando
mi resi conto della cosa, pensai a lungo se fosse il caso o meno di continuare.
Stavo giocando col fuoco e il mio inganno stava diventando ancora più grave, ma
ormai mi ero spinta troppo in là, avevo messo in gioco troppo e, per quanto da
una parte fosse tutto tremendamente immorale e proibito – più la nostra
corrispondenza diventava personale e profonda, più sentivo il dovere di
ricordare a me stessa che stavo comunque parlando con mio zio –, dall’altra ero
diventata schiava di quelle lettere, di quell’uomo che riusciva a toccare corde
dentro di me che nemmeno sapevo di avere.
Compiuti
ventun anni, potevo affermare di essere illibata nel corpo, ma non certo nello
spirito, anzi, probabilmente grazie a Leo, avevo sfiorato fantasie di cui
nemmeno mia madre conosceva l’esistenza.
Mi
ero innamorata di mio zio e soffrivo sapendo che non sarei mai stata
ricambiata, che per lui, come ripeteva spesso, il nostro era un piacevole
passatempo; ma soprattutto, soffrivo nel pensare che scrivesse quelle cose
immaginando mia madre.
Nelle
lettere mi lodava, mi chiamava la sua donna perfetta, e io sorridevo felice a
quei complimenti, poi tutto il mio castello di carte crollava quando ricordavo
a chi credeva di indirizzare quei complimenti.
Il
dolore era così forte che sarebbe bastato solo quello per farmi desistere dal
continuare quella tortura, se già tutto il resto non fosse stato un incentivo
sufficiente; semplicemente, però, non potevo più fermarmi, era diventata una
dolce, dolcissima tortura quella, e sentivo dentro di me che almeno in parte,
lui mi voleva bene e che quei complimenti erano almeno un poco rivolti a me. Mi
ripetevo che in fondo non facevo male a nessuno se non a me stessa, tanto mio
zio non sarebbe mai tornato in Inghilterra, né lui né mia madre si sarebbero
mai incontrati e che quindi, avrei potuto continuare ancora per un po’. Solo
un’ultima lettera, solo un’altra ancora, e poi un’altra.
Probabilmente,
se mio nonno non fosse morto, avrei continuato per sempre.
Sicuramente,
se non fosse morto, Leo non sarebbe mai tornato sul serio e io, in quel
momento, non mi sarei ritrovata con un uomo furente di rabbia in camera.
«Ebbene?
Non vuoi dire nulla in tua difesa?»
Cosa
potevo dirgli? Come potergli spiegare in poche parole, tutto ciò che avevo
vissuto in anni di missive? Come potergli chiedere perdono?
La
sua mano libera mi agguantò per un braccio, trascinandomi contro di lui,
scaraventò le lettere a terra furioso.
«Mi
irrita il fatto che tu non riesca nemmeno a difenderti verbalmente. Cosa
faresti se io ora scendessi di sotto e ti smascherassi di fronte ai tuoi
genitori?»
Sgranai
gli occhi, sconvolta da quelle parole. Sapevo che sarebbe successa una cosa del
genere, ma sentirglielo dire rese il tutto, in qualche modo, più reale.
«Vi
prego, no,» riuscii a mormorare, con gli occhi che pizzicavano per le lacrime
trattenute. Avrei potuto sopportare qualsiasi cosa, ma non l’ennesima
ritorsione da parte di mia madre.
Leo
grugnì seccato e mi lasciò andare, scuotendo la testa.
«È
tutto quello che sai dire? Non hai davvero intenzione di provare a convincermi
che c’è stato un malinteso? Non riesci nemmeno a spiegare le ragioni che ti
hanno portata a compiere un simile gesto?»
La
sua voce vibrava, sembrava sul punto di scoppiare a urlare, io tremavo,
incapace di pensare a quello che mi stava suggerendo. Avevo delle ottime
argomentazioni, volevo chiarire il malinteso, le parole erano tutte lì sulla punta
della mia lingua, ma non riuscivo a buttarle fuori, ero terrorizzata.
Lui
si avvicinò nuovamente, fissandomi con la stessa espressione assassina che gli
avevo visto in volto la prima volta che ci eravamo incontrati.
«E
sia. L’hai voluto tu, preparati a subirne le conseguenze.»
Mi
lasciò così, con quella minaccia che ancora rimbombava nell’aria a ritmo con i
battiti forsennati del mio cuore. Immobile nello stesso punto in cui ero stata
per tutto il tempo, piansi in silenzio, maledicendomi per essere sempre così
debole e inetta.
Leo
aveva ragione, mi meritavo tutto ciò che aveva in mente di farmi.
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