Capitolo 6

 

«Se ti avvicini un po’ di più a quel libro rischi di cascarci dentro.»

Sobbalzai, il cuore in gola per il terrore, il libro mi cadde di mano, finendo a terra con un tonfo. Leo se ne stava fermo appoggiato contro il legno chiaro della porta, e mi fissava con un sorriso storto appena accennato. In una situazione simile, avrei dovuto urlare terrorizzata al sol pensiero che c’era un uomo in piena notte in camera mia, un uomo che aveva tutta l’aria d’essere un criminale della peggior specie e che mi osservava come se fossi la sua prossima vittima. Avrei dovuto scattare in piedi, magari cercare di coprirmi, visto che indossavo solo la camicia da notte; intimargli di uscire se non voleva che svegliassi tutta casa con le mie grida d’aiuto. Non feci niente di tutto ciò. Rimasi immobile, fissandolo a bocca aperta, con la mente così tanto in confusione da non riuscire ad articolare nemmeno un’unica frase di senso compiuto. Erano giorni che speravo di vederlo in quella stessa stanza e ora che finalmente era lì, non avevo idea di come comportarmi. Anzi, un’idea l’avevo, ero solo troppo timida e codarda per metterla in atto.

«Co-C-Cosa ci fate qui?» riuscii a balbettare infine.

La stanza era flebilmente rischiarata dalla luce della piccola candela che tenevo di fianco al letto, quindi, le ombre che danzavano sul volto di Leo e la sua lontananza da me, che me lo faceva apparire sfocato, rendevano la sua sagoma ancora più inquietante.

Lui si staccò dalla porta e, lentamente, iniziò a camminare verso di me, il mio cuore batteva così forsennatamente nel petto che temetti stesse per esplodermi. Istintivamente, afferrai le coperte e le tirai su di me, illudendomi che potessero bastare a proteggermi contro qualsiasi cosa lui avesse in mente di fare.

Senza badare al mio gesto, lui si lasciò cadere sul bordo del materasso, a pochi centimetri dal mio fianco sinistro.

«Dobbiamo parlare,» mi annunciò serio, il sorriso sghembo che ero riuscita a intravedere prima, ora era svanito. Deglutii guardandomi attorno per trovare la forza, o un modo per mettere distanza tra di noi. Non ragionavo bene con lui vicino.

«Di cosa? Non sono una grande oratrice.»

Leo sembrava pensieroso, si mosse leggermente, ruotando il busto in modo da poter essere faccia a faccia con me, poi sollevò un braccio e me lo appoggiò delicatamente sopra una coscia. Anche se c’erano tre strati di lenzuola a separare le nostre carni, sentii istantaneamente un fuoco sprigionarsi dal punto che lui stava indirettamente toccando.

«Perché allora non ti limiti a rispondere alle mie domande?» mormorò, tenendo però lo sguardo puntato sulla sua mano, come se stesse cercando di scogliere l’ennesimo nodo nella sua complicata vita. Incapace di proferire parola a causa di quella mano che risucchiava ogni mia attenzione, mi limitai ad annuire, quasi certa che mi stesse comunque osservando con la coda dell’occhio, mentre il mio cuore urlava, voleva che quelle carezze finissero ma allo stesso tempo implorava che continuassero.

«Perché non inizi raccontandomi cos’è successo la notte dell’incendio?»

Sbattei le palpebre un paio di volte, ricacciando dietro l’orecchio un ricciolo che mi era finito sugli occhi.

«Cosa volete sapere?»

I suoi occhi scattarono in su, la sua presa sulla mia gamba divenne un po’ più salda.

«La verità,» rispose lapidario.

Sospirai, non sapendo bene cosa dire… né da dove eventualmente iniziare il racconto.

«Avete sentito la storia di mia madre, perché pensate che non sia vera?»

«Perché non sono stupido.»

Mi venne quasi da ridere per quella risposta, in effetti, mia madre considerava tutti un po’ stupidi e incapaci di smascherare qualsiasi sua fandonia, per quanto grande fosse.

«Non sono stata io,» riuscii a mormorare alla fine, i pugni stretti alle lenzuola. Il suo volto si addolcì un poco, inclinò la testa leggermente di lato e il pollice della sua mano iniziò a compiere lenti cerchi sulla mia gamba, accarezzandomi.

«Lo so.» Il suo tono si era fatto più gentile adesso, sembrava quasi umano, quasi. «Non ti ho chiesto questo, però.»

Mi venne quasi da piangere, nessuno si era mai preoccupato di chiedere la mia versione dei fatti ed io ero sempre stata troppo spaventata per raccontarla e ora arrivava Leo, il mio Leo, che voleva sapere, che cercava di consolarmi come meglio riusciva. Mi sentii soverchiata da tutti i sentimenti che provavo per quell’uomo; mi mancò il fiato.

«Bimba.» Lui subito si spostò sul letto, afferrandomi il volto con le mani e carezzandolo delicatamente con la punta delle dita, i miei polmoni intanto chiedevano dell’aria che non accennava ad arrivare, per quanto annaspassi, la paura iniziò a serpeggiarmi nel corpo; mi aggrappai alle sue braccia, stringendo convulsamente la stoffa della camicia, il suo volto era calmo, attento, i suoi occhi concentrati su di me. «Bimba, stai calma. Respira piano. Guardami: sono qui, non ti lascio; ma tu devi calmarti e permettere all’aria di entrare, hai capito?»

Annuii e chiusi gli occhi, cercando di scacciare qualsiasi tipo di pensiero che non fosse il caldo corpo di Leo vicino al mio, le sue grandi mani che mi circondavano la nuca, massaggiandomi la cute con i polpastrelli, il suo alito caldo e i suoi occhi su di me.

Era lì, non sarebbe sparito, non mi avrebbe lasciata a soffrire da sola, potevo contare su di lui, potevo appoggiarmi a lui.

Lentamente, dolorosamente, l’aria tornò a circolare nei miei polmoni; ogni respiro bruciava, come se stessi respirando fuoco, ma dovevo farlo, Leo voleva che lo facessi e io non l’avrei deluso, a costo di ridurmi in cenere.

Non so quanto tempo passò, forse minuti, ore, o solo pochi secondi, ma finalmente il mio respiro tornò regolare, riaprii gli occhi, trovando i suoi ad aspettarmi.

«Brava bimba,» mi lodò senza però staccarsi da me, né io da lui.

Riuscii a fare un debole sorriso, avevo le palpebre pesanti per lo sforzo e la gola mi pizzicava in modo atroce.

«Ti è già successo prima?» chiese pensieroso. Io non fidandomi della mia voce, mossi lentamente il capo, sperando che capisse che stavo annuendo, ero troppo stanca per fare qualsiasi altra cosa.

«I tuoi genitori lo sanno?»

Lo sapevano? Mamma sicuramente, mio padre non ne ero così certa.

«Mamma,» gracchiai flebilmente, lasciandomi andare contro il palmo della sua mano, mi piaceva sapere che una sua mano era così grande da potermi cullare il capo, mi sentivo protetta.

Leo aggrottò la fronte, finalmente potevo osservare da vicino il suo volto corrucciato, era così bello, tutte le più piccole rughe che gli si formavano sulla fronte o attorno agli occhi, accentuavano solo la sua avvenenza.

«Perché lo sa solo lei?»

Lo fissai in silenzio per qualche istante, non sapevo se avrei fatto bene a dirglielo o no, tuttavia, avevo bisogno che qualcuno oltre me sapesse, che potessi sentirmi un po’ meno sola al mondo.

«Colpa sua.»

Mia madre era l’unica a saperlo perché era stata lei a provocarmi la prima di quelle crisi e molte di quelle che ne erano seguite. Odiavo quando succedeva e dopo stavo male per giorni, incapace di respirare senza provare dolore o di parlare senza sentire la gola bruciare. Odiavo che lui mi avesse vista in quello stato. Odiavo me stessa per essere così debole e succube.

Leo, silenzioso, mi aiutò a stendermi nel letto, tirandomi le coperte fin sotto il mento.

«Riposati adesso,» mi intimò autorevole mentre, con delicatezza, mi scostava un paio di lunghe ciocche che nel movimento mi erano finite sul volto, prese un boccolo tra le dita e rimase a fissarlo a lungo. «Ma la nostra conversazione non è ancora finita,» terminò tornando a guardarmi, ormai quasi totalmente vinta dalla stanchezza, non riuscii a fare che un lieve cenno con la testa.

Lo guardai con gli occhi socchiusi avvicinarsi alla porta e uscire, il rumore lieve della serratura che si chiudeva dietro di lui fu l’ultima cosa che riuscii a percepire, prima di cadere addormentata.

 

Come ogni altra volta, la mattina seguente ero terribilmente dolorante, i muscoli che avevo contratto per la paura ora dolevano e i polmoni faticavano ancora un po’ a riprendere il ritmo regolare di respirazione, sentivo come un enorme peso sul petto. Entrai in cucina e Molly sussultò guardandomi, evidentemente oltre a sentirmi tremendamente dovevo avere anche un aspetto orribile.

«Santo cielo, Signorina, non vi sentite bene?»

Scossi la testa, lasciandomi cadere su quello che ormai consideravo il mio posto sulla panca e facendomi scappare un sospiro.

Molly fu subito accanto a me, prima che potessi realizzare cosa stava succedendo, a tastarmi la fronte con la mano.

«Non siete calda, non è un qualche malanno. Cosa c’è che non va?»

Le indicai con un gesto la gola e nei suoi occhi vidi passare un lampo di consapevolezza. Probabilmente, se si fosse sentita meno serva e avesse considerato me meno Signorina, avrebbe detto qualcosa, ma già solo l’essersi permessa di toccarmi senza averne il permesso, per lei doveva essere stata una grave mancanza nei miei riguardi. Doveva limitarsi a fare la serva, io la padrona, ma non mi era mai piaciuta quella sua imposizione mentale, negli anni era stata la figura materna che mia madre non era mai stata capace di rappresentare, e i suoi piccoli gesti d’affetto nei miei confronti, come il tastarmi la fronte per controllarmi la temperatura, mi riempivano il cuore d’affetto e gli occhi di lacrime.

«So io quel che ci vuole, lasciate fare a me,» disse alla fine, sparendo nella dispensa per andare a recuperare qualche ingrediente magico.

Pochi istanti dopo, sentii dei passi avvicinarsi alla cucina e mi girai giusto in tempo per vedere mio padre affacciarsi sull’uscio.

«Oh, cara sei qui. Ti stavo cercando.»

Aggrottai la fronte, mio padre che mi cercava? Era la prima volta che succedeva da quando ero nata. Lui entrò e si guardò un attimo attorno, spaesato; suppongo non fosse mai entrato in cucina e vedere una stanza nuova della propria casa dopo anni che ci vivi, doveva essere alquanto strano.

«Vedi, devo dirti una cosa…» iniziò poi, sedendosi accanto a me, nello stesso identico punto in cui si era seduto Leo la mattina prima. «Ho parlato lungamente con tuo zio, ne abbiamo discusso, e alla fine sono giunto alla conclusione che ti farebbe bene un cambiamento.»

Ero confusa, di cosa stava parlando? Cosa l’aveva convinto a fare Leo? Come sempre, emozioni contrastanti presero a lottare nel mio petto già dolorante.

«E siccome a breve lui dovrà partire per raggiungere la sua tenuta nel Gloucestershire per accertarsi del suo stato, ha proposto che tu lo raggiunga lì, nel caso in cui il posto non sia troppo malmesso.»

Volevo urlare, volevo saltare in piedi e correre a perdifiato fino alla fine della strada e continuare a urlare ancora di più, volevo ballare, ridere e piangere, tutto nello stesso momento.

Avrei raggiunto Leo nel Gloucestershire, un posto distante giorni di viaggio da Londra, immerso nel verde e nella tranquillità.

Volevo baciare mio padre, buttargli le braccia al collo e piangere sul suo petto. In tutta la mia vita mai nessuno aveva avuto per me un pensiero così bello o da me così tanto desiderato.

Ma ovviamente, dimenticavo chi ero, dimenticavo che non potevo sperare in niente di positivo nella mia vita, che ad attimi di gioia seguivano mesi di sofferenze. Che dovevo chinare il capo e non desiderare niente, perché da quei desideri sarebbero giunte solo disgrazie. Lo sguardo di mio padre si fece improvvisamente triste, e sentii gelarmi il sangue nelle vene.

«Tua madre ha preteso di accompagnarti. Ho dovuto darle il permesso, altrimenti sai com’è fatta, mi avrebbe reso la vita impossibile.»

Erano ventitré anni che lei la rendeva impossibile a me. Ogni grammo di gioia svanì dal mio corpo, lasciando solo la voglia di piangere, ma per un motivo del tutto diverso rispetto a pochi attimi prima. Volevo pestare i piedi a terra, strillare e disperarmi finché non si fosse trovata una soluzione che prevedesse me da sola in viaggio con mia madre e, ancor peggio, lei che soggiornava nel maniero di Gloucester assieme a me e a Leo per un tempo indefinito.

Come sempre, non seppi cosa dire, o meglio, non riuscii a dire niente. Rimasi paralizzata, incapace di fare niente che non fosse fissare mio padre. Lui, ritenendo il suo compito concluso, mi diede una lieve pacca sulla spalla e si dileguò dalla cucina, tanto rapido così com’era apparso.

Molly tornò proprio in quel momento, non accorgendosi del mio umore, iniziò a prepararmi una tisana per la gola, che ormai era diventata l’ultimo dei miei problemi.

 

Adducendo la scusa del malanno, riuscii a esentarmi dal pranzo col resto della famiglia, non avevo proprio voglia di affrontarli, non adesso, non dopo l’ennesima batosta morale.

Molly mi portò in camera una zuppa calda che attenuò un po’ il dolore fisico. Non volendo far tornare al secondo piano la donna solo per prendere il vassoio, decisi di scendere e portarglielo io stessa. Naturalmente, mi rimproverò poiché disse che spettava a lei, ma io scossi il capo, sorridendo mestamente.

Salii di nuovo le scale per tornarmene in camera, con previsioni di un futuro sempre più nero a ogni passo. Non mi sentivo così abbattuta da quando temevo che Leo potesse scoprire il mio segreto, da quando paventavo una ripercussione. Era ancora troppo presto per sentirmi fuori pericolo, certo, ma dopo pochi giorni passati in sua compagnia, l’idea che potesse fare qualcosa anche dopo averlo scoperto mi sembrava così sbagliata. Lui era Leo, il Leo che mi aveva salvata da una rovinosa caduta, difesa contro mia madre, che mi aveva creduto quando gli avevo confessato che non c’entravo niente con l’incendio, colui che mi aveva stretta a sé e rassicurata quando sentivo tutto il mondo crollarmi attorno. Nonostante il suo aspetto minaccioso e i suoi modi bruschi, era la persona più buona che avevo incontrato in tutta la mia vita, era l’uomo di cui, già da anni, ero innamorata.

Ma il destino aveva strani modi per palesarsi, e spesso quando una cosa andava male, il destino arrivava a ricordarti che dovevi comunque esserne grato, perché sarebbe potuta andare molto peggio.

Perciò, quando arrivai sull’uscio della mia camera trovandolo spalancato, il cuore mi balzò in gola. Mi precipitai dentro con i battiti impazziti e un pizzicore dietro la nuca, la mente in subbuglio.

Leo era lì, fermo davanti al mio scrittoio, mi dava le spalle ma sicuramente mi aveva sentita arrivare.

Non sapevo cosa fare, non sapevo come muovermi né cosa dire, quindi rimasi ferma lì, tremante e impaurita, aspettando di sapere cosa avrebbe detto lui.

Leo sollevò un braccio e io potei vedere una pila di lettere stretta tra le sue dita.

«Dunque avevo ragione,» mormorò, voltando lentamente il capo nella mia direzione. Io mi sentii mancare, vedendo la furia malcelata nel suo sguardo, avevo le gambe deboli e lo stomaco attanagliato in una gelida morsa. Una signorina normale in quel momento sarebbe svenuta, io stringevo convulsamente la stoffa della mia gonna, ogni muscolo teso, pronto a ricevere il colpo, come una naufraga che cerca di contrastare la furia delle onde in mezzo a una burrasca.

Leo si girò del tutto, il blocco di fogli ancora stretto nella mano sollevata, si avvicinò a passo lento, lo sguardo gelido.

«Non era tua madre a scrivermi quelle lettere, eri tu.»

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