Capitolo 30

 

“Se davvero vogliamo fare questa cosa, dovremo stabilire delle regole,

 regole che tu dovrai seguire o sarò costretto a punirti. Pensaci molto

 bene, perché una volta accettato, non si torna indietro.”

 

“Voglio farlo, e voglio farlo con te, Leo.”

 

 

Leo e mio padre portarono avanti il loro colloquio per il resto del giorno, il che mi diede il tempo per riflettere su quanto avevo sentito, e sulla gravità di ciò che era stato detto. Avevo creduto per anni di essere sola e ignorata da tutti, costretta a lottare e sopportare le angherie di mia madre, invisibili al resto del mondo; in quel momento invece scoprivo, in modo del tutto casuale, che avevo sempre avuto un alleato in casa che vedeva e sentiva tutto ma che era costretto al silenzio. Quella consapevolezza venne seguita da un’ondata di rabbia quasi soffocante che mi costrinse ad allontanarmi da tutto e tutti, a chiudermi a chiave in camera per evitare di scoppiare a urlare nel bel mezzo del pranzo.

Perché tutti continuavano a nascondermi cose? Perché mio padre non era mai venuto a dirmi la verità?

Sicuramente avrei passato la mia infanzia e la mia adolescenza sentendomi meno sola.

Trascorsi il resto della giornata chiusa in camera e alla sera mi feci portare su la cena, non volevo vedere né parlare con nessuno, men che meno con un qualsiasi membro della mia famiglia. Quando arrivò l’ora di coricarsi, mi cambiai velocemente e mi infilai sotto le coperte, per niente intenzionata a raggiungere Leo in camera sua.

Mi tolsi gli occhiali e mi rannicchiai su un fianco, totalmente nascosta sotto la sottile coperta, domandandomi se per caso non avessi dovuto spostare il cassettone davanti all’entrata segreta, così da impedire eventuali incursioni notturne di Leo. Alla fine desistei, non sarei comunque stata in grado di spostare il mobile e, se davvero lo avesse voluto, nulla avrebbe potuto fermarlo dall’abbattere qualsivoglia ostacolo.

Ma non volevo che entrasse, ero arrabbiata con lui e con mio padre, non volevo vederlo. Tuttavia scioccamente, forse ingenuamente, lo aspettai.

Aspettai di sentirlo arrivare.

Ma lui non venne.

 

La mattina dopo uscii dal letto, stanca a causa della nottata quasi insonne passata ad aspettare, triste e delusa perché non si era presentato e ancora un po’ arrabbiata da quanto avevo scoperto. Tutto quel groviglio di emozioni doveva leggersi sul mio volto in qualche modo, nessuno fece commenti, ma notai che le cameriere cercarono di farmi sorridere più del solito, sebbene invano. Dato che nella mia testa avevo deciso che doveva essere Leo a venire a cercarmi, decisi che non sarei scesa nemmeno a fare colazione, quindi chiesi a Stevenson di farmela portare in camera.

Leo però non si presentò nemmeno allora.

Consumai la mia colazione lentamente, in religioso silenzio e poi, quando i domestici ebbero portato via tutto, mi arrischiai a mettere il naso fuori dalla mia stanza. Siccome non sentivo nessun rumore provenire dalla casa, decisi di rifugiarmi nel mio posto preferito: la biblioteca.

Scesi cautamente le scale tenendo le orecchie sempre all’erta, pronte a captare qualsiasi suono che potesse indicarmi la presenza di Leo o di mio padre nelle vicinanze, ma in casa regnava la pace assoluta.

Entrai in biblioteca subito dopo essermi accertata che non ci fosse nessuno nemmeno lì, e mi chiusi la porta alle spalle, tirando un piccolo sospiro di sollievo. Non mi andava particolarmente di leggere, gli occhi mi bruciavano a causa della stanchezza e la testa mi doleva lievemente, però stare in mezzo ai libri riusciva sempre a rilassarmi molto. Girovagai per la stanza carezzando delicatamente le costole dei libri, persa nei miei pensieri, finché girando attorno a uno scaffale notai una nicchia che faceva angolo con la parete e sembrava fatta apposta per rannicchiarcisi al sicuro. Mi ci infilai stringendomi le gambe al petto e guardandomi attorno, da quella prospettiva ero totalmente circondata da libri, sentivo l’odore della carta e dell’inchiostro ancora più intensamente, era tutto così perfetto, così calmo e tranquillo da farmi cadere addormentata in pochi istanti.

Mi svegliai quando udii qualcuno schiarirsi delicatamente la voce dall’alto. Spalancai gli occhi confusa e, come succedeva sempre quando mi addormentavo in luoghi dove non avrei dovuto, tremendamente impaurita; sollevai lo sguardo in direzione di quel suono con il cuore in gola.

Stevenson mi guardava con un piccolo sorriso in volto tenendo in mano una candela che lo illuminava.

«Per fortuna vi ho trovata, Signorina,» mormorò offrendomi una mano per aiutarmi a uscire dal mio confortevole nascondiglio. «Vi stavamo cercando.»

Sbattei le palpebre e guardai fuori dalla portafinestra, il sole stava calando ed era ormai quasi notte, avevo dormito un intero giorno.

«Mi dispiace,» iniziai profondamente mortificata di averli fatti preoccupare, «stavo curiosando e ho trovato quella nicchia… non pensavo di essere così stanca.»

Lui scosse il capo sorridendo.

«Capisco perfettamente, Leo tuttavia non credo sarà dello stesso avviso.»

Sentir pronunciare il suo nome fece tornare a galla con prepotenza tutto il groviglio di sentimenti che mi aveva accompagnata quel giorno. Sbuffai avviandomi verso la porta, intenzionata a dirigermi in camera mia.

«Leo può pensarla come gli pare,» dichiarai arrabbiata, uscendo in corridoio con il maggiordomo che seguiva ogni mio passo.

«Vuole parlarvi,» aggiunse mettendosi al mio fianco, «chi vi trovava avrebbe dovuto portarvi immediatamente da lui,» spiegò mentre salivamo le scale, e sbuffai ancora, amaramente divertita.

«Io non ho niente da dire a lui,» dichiarai secca, «quindi me ne andrò in camera mia.»

Stevenson non disse più nulla, limitandosi ad accompagnarmi fino alla mia porta e aprendola per me, io entrai come una furia e non appena ebbe chiuso l’uscio con un inchino, feci girare la chiave nella toppa. Decisa a percorrere quel sentiero di guerra, girai attorno al letto e spostai il comodino davanti al passaggio segreto. Incastrai il lato sinistro tra il muro e il cassettone, così che per Leo non fosse possibile da aprire, o almeno così speravo. Mi accomodai al mio tavolino e mi misi a fissare fuori dalla finestra. Osservai il cielo tingersi prima di rosso fuoco poi di nero carbone, gli alberi del bosco diventare sempre più una massa indistinguibile nell’oscurità e intanto ascoltavo attentamente ogni rumore proveniente dalla casa.

Il cuore che mi batteva furiosamente nel petto. Stavo disobbedendo volontariamente a un ordine diretto di Leo dopo aver fatto preoccupare lui e tutti coloro che vivevano con noi. Sapevo bene cosa sarebbe successo ma non mi importava, ero troppo infuriata, troppo decisa a portare avanti quella ripicca per potermi spaventare delle ripercussioni cui avrebbe portato la mia testardaggine.

Per un po’ non accadde niente, osservai il cielo diventare completamente nero e le stelle comparire a rischiarare il buio della notte, mi alzai per accendere le candele nella stanza così da non starmene seduta completamente al buio e poi tornai al mio posto. Quando notai il chiarore della luna sbucare da sopra la casa, sentii i passi pesanti di Leo avvicinarsi rapidamente alla mia porta; rimasi immobile, ogni mio muscolo teso, pronto a scattare al minimo segnale di pericolo. I passi si fermarono e la mano pesante di Leo calò furiosa sul legno, facendolo tremare.

«Desdemona, esci fuori!» urlò così forte che probabilmente rimbombò per tutta casa.

«No,» sentenziai lapidaria, sistemandomi meglio sulla sedia e continuando a fissare ostinatamente fuori dalla finestra, le guance che mi bruciavano e la nuca che mi pizzicava.

«Desdemona!» ringhiò e io rabbrividii perché conoscevo bene quel tono. «Esci. Subito. Fuori.»

«Perché, sennò che fai?» chiesi urlando a mia volta, con la voce che mi tremava leggermente. «Butti giù la porta?» lo sbeffeggiai sapendo bene che stavo stuzzicando un lupo già inferocito.

Leo non rispose, non a parole almeno, perché dopo un istante di totale silenzio, qualcosa di pesante si schiantò contro la porta, facendola scricchiolare sinistramente. Sussultai per lo spavento scattando in piedi e allontanandomi il più possibile dall’entrata. Un altro colpo pesante e vidi con orrore la porta sfondarsi e cadere a terra.

Leo fece il suo ingresso, gli occhi mandavano lampi di collera che mi gelarono il sangue nelle vene, senza dire niente attraversò rapido la stanza e mi agguantò per un braccio, strattonandomi in avanti, provai a resistergli puntando i piedi e cercando di divincolarmi, ma non potevo vincere. In un istante Leo mi afferrò per la vita e mi sollevò in aria, ribaltandomi a testa in giù e sistemandomi sulla sua spalla come un sacco di patate. Provai a scalciare ma le sue mani mi bloccarono rapidamente le gambe, allora iniziai a tempestargli di pugni la schiena, ma era come colpire un muro.

«Mettimi giù!» sibilai inferocita mentre lui si muoveva rapido per la stanza e ne usciva. Non ottenni risposta, quindi continuai a dimenarmi finché una sua mano non atterrò brutalmente sul mio didietro, colpendolo nel bel mezzo del corridoio. Nonostante gli strati di stoffa, il colpo risultò comunque abbastanza doloroso da farmi sussultare e lo schiocco risuonò perfettamente udibile tra le pareti che ci circondavano.

«Ora smettila di agitarti o te ne tiro un altro.»

Avrei voluto urlargli che poteva tirarmene anche cento, non mi importava, ma mi spaventava il fatto che potesse farlo là in mezzo dove tutti, compreso mio padre, potevano sentirci e vederci. Quindi rimasi buona, permettendogli di trasportarmi fino in camera sua.

Chiuse la porta a chiave e mi scaraventò senza grazia sul letto.

«Ferma lì,» mi intimò voltandosi verso la scrivania per recuperare qualcosa. Per un istante, presi in considerazione l’idea di ignorare il suo ordine e muovermi, addirittura provare a scappare di nuovo, ma il modo in cui si voltò a guardarmi, come se sapesse esattamente quello a cui stavo pensando, mi fece desistere.

Tornò verso il letto reggendo tra le mani dei lunghi pezzi di corda che avevo già visto in passato.

«Continui a comportarti come una bambina,» ringhiò salendo sul letto e costringendomi a voltarmi sulla pancia, mi allungò le braccia così da poterle legare alle sponde del letto. «Continui a farmi infuriare.»

Mi sollevò le gonne e mi sfilò l’intimo, per poi farmi mettere in ginocchio, legandomi le caviglie assieme così che non potessi aprire più del dovuto le gambe, assicurandole al bordo del letto. 

«Hai niente da dire prima che inizi?» chiese allontanandosi da me. Sentii il rumore della fibbia della cintura dei suoi pantaloni che veniva aperta e iniziai a tremare, tuttavia tacqui. «Molto bene,» decretò definitivo.

Il duro cuoio della sua cinghia si abbatté su di me. Strinsi le mani attorno alle corde che mi tenevano legata e urlai, cercando istintivamente di ritrarre il bacino, ma la corda che mi imprigionava le gambe mi bloccò il movimento. Il secondo colpo bruciò peggio del primo, calde lacrime scesero dalle guance e gemetti di dolore, inarcandomi verso il letto in un disperato tentativo di sfuggirvi, mentre le corde attorno ai miei polsi e alle mie caviglie che mi scavano nella carne. Il terzo e il quarto colpo arrivarono uno dietro l’altro con schiocchi sordi sulla mia carne martoriata, così tanto dolorosi da uccidere sul nascere l’urlo di dolore che mi era nato in gola. Le lacrime mi appannavano gli occhiali e non riuscivo più nemmeno a vedere bene la parete davanti a me. Il quinto colpo fu il più tremendo di tutti, calò rapido e duro in obliquo, colpendo entrambe le natiche con così tanta forza che temetti avesse rotto la pelle facendomi sanguinare; gettai la testa all’indietro e urlai disperata, singhiozzando a gran voce.

Sentii la cintura che veniva lasciata cadere a terra, poi i passi del mio Signore che giravano attorno al letto per raggiungermi. Le sue mani mi affondarono tra i capelli, facendomi sollevare delicatamente la testa così che potessimo fissarci negli occhi. A causa delle mie lacrime e delle lenti sporche lo vedevo molto distorto, ma non mi sfuggì lo sguardo grave con cui mi fissò.

«Continuo o sei disposta a parlarne?»

Scossi freneticamente la testa continuando a singhiozzare.

«Vi prego, no…» mormorai tra i singulti e lui annuì.

Mi slegò rapidamente polsi e caviglie, aiutandomi a distendermi sul materasso, poi si allontanò e lo sentii girare per la stanza. Il dolore era troppo e la stanchezza pure per voltarmi a controllare cosa stesse facendo, quindi rimasi immobile, distesa sulla pancia con le gonne ancora tirate su.

Quando tornò da me, il mio pianto si era calmato e si era ridotto a singhiozzi silenziosi, una mano premuta contro la bocca per bloccare i sobbalzi involontari. Si sedette accanto a me, poi le sue dita fresche percorsero cautamente la pelle arrossata e martoriata delle mie natiche, spalmandovi sopra qualcosa.

«Vuoi dirmi cosa ti è preso?» chiese calmo, continuando a spalmare minuziosamente l’unguento. Io non sapevo bene da dove iniziare a spiegargli il moto di emozioni che mi aveva portata a quel punto. «È per quello che hai sentito in biblioteca?»

Trasalii, voltando lievemente il capo per guardarlo, stava seduto con una gamba piegata sul letto e l’altra ancora adagiata a terra, raccoglieva da una piccola ampolla una sostanza trasparente che poi mi spalmava sulla pelle e che mi provocava una piacevole sensazione di fresco, non mi guardava però, sembrava totalmente assorbito dal suo compito.

«Come sai che ero lì?» chiesi, la voce roca per il pianto e le urla, lui mi lanciò una rapida occhiata, poi tornò a concentrarsi sul suo compito.

«Desdemona, io so sempre quando ti trovi nei paraggi.»

La parte di me che non stava soffrendo per i colpi ricevuti gongolò felice nel ricevere l’ennesima dimostrazione di quanto fossi importante per lui.

«Perché non me l’ha mai detto?» chiesi, sentendo la voce che si incrinava, le lacrime che minacciavano di uscire nuovamente. «Perché tu non me l’hai detto?» continuai guardandolo seria. «Perché tutti questi segreti?»

Sospirò chiudendo l’ampolla e appoggiandola sul comodino, si asciugò poi le mani su uno straccio che aveva tenuto poggiato sul ginocchio tutto il tempo per non sporcarsi e poi, buttatolo a terra, si sdraiò lentamente accanto a me, così che i nostri volti fossero vicini.

«Cosa avrebbe risolto tuo padre dicendotelo prima?» chiese in un sussurro. «Pensi che alla te adolescente avrebbe fatto piacere scoprire che tuo padre sapeva delle angherie di tua madre ma che faceva apparentemente poco e nulla per impedirglielo?» mi guardò teneramente, allungando una mano per scostarmi una ciocca di capelli dal volto. «Pensi che ti sarebbe importato qualcosa di sentir parlare di contratti e restrizioni? O avresti solo odiato tuo padre perché sapeva e non faceva niente? Se ti teniamo segreto qualcosa, Desdemona, è solo per il tuo bene.»

Alla fine, realizzai, aveva come sempre ragione lui. Ero abbastanza adulta da capire logicamente che mio padre pur volendomi bene non sarebbe stato in grado di fare niente a mia madre, ma da ragazzina quel dettaglio non mi sarebbe importato, non mentre ero al centro delle violenze più crudeli di quella donna, e avrei solo finito con l’odiarlo.

«Immagino quindi di non poter sapere di che contratto parlavate,» buttai lì con una punta di speranza, lui allungò nuovamente la mano per sfilarmi gli occhiali sporchi e pulirli con un lembo della sua camicia.

«È molto lungo e complicato da spiegare,» iniziò cupo, rinforcandomi cautamente le lenti sul naso, «per fartela breve: nostro padre e il padre di tua madre firmarono un contratto in cui c’è scritto che le nostre famiglie avrebbe dovuto unirsi e che avremmo dovuto sempre e comunque trattare con ogni riguardo tua madre, altrimenti ogni nostro bene sarebbe stato ceduto alla sua famiglia. Sul momento nostro padre firmò perché da una parte era convinto che non sarebbe stato poi un grande problema, dall’altra che avrebbe trovato un modo, anche a mali estremi, di far annullare il contratto. Purtroppo aveva sottovalutato la follia e la cattiveria di tua madre e, in aggiunta, il contratto venne redatto dallo stesso Isaac Thornberry, tuo nonno materno, nonché famoso giudice della Camera dei Comuni, sa il fatto suo, quindi risultò essere quasi inattaccabile.»

Mi accigliai, terribilmente confusa da quella spiegazione, da quelle rivelazioni sul passato e su un parente che nemmeno sapevo di avere.

«Sì, ma perché nonno firmò quel contratto?» chiesi, sollevando lo sguardo su di lui. «Perché firmare un accordo così? Lui cosa ci avrebbe guadagnato?»

Leo si avvicinò per posarmi un tenero bacio sulla fronte.

«Questo, piccola mia,» iniziò serio, «non posso proprio dirtelo.»

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