Capitolo 26
“Mi piace l’odore della pioggia, della terra
bagnata. In quei momenti,
seduta sul davanzale della finestra, chiudo
gli occhi e mi lascio trasportare
dai rumori delle gocce che picchiettano sul
vetro, nessun altro rumore esiste,
nessun altro pensiero. Ci siamo solo io e la
pioggia.”
“Riesco quasi a
immaginarti, tutta rannicchiata su quel piccolo davanzale,
con gli occhi chiusi e
un’espressione beata in volto. Un giorno, magari,
mi permetterai di sedere
accanto a te, allora ascolteremo assieme la pioggia.”
Arrivammo
in città pochi minuti dopo il breve ma intenso interludio; il cocchiere accostò
la vettura per farci scendere in quella che supposi essere una delle vie
principali di Gloucester e io rimasi incantata dalla bellezza e semplicità del
luogo. Tutto attorno a me c’erano cose, rumori e odori di una qualsiasi
giornata, eppure, risultava molto meno caotico di quanto non fosse Londra, in
qualche modo era più colorato e vivo. Mi guardavo intorno, cercando di cogliere
più particolari possibili di quella città; desiderosa, come mai era successo,
di passeggiare per le sue vie, così da poter osservarne meglio ogni strada e
scoprire le meraviglie che sicuramente celava. Troppo rapita da quella novità,
lasciai che Leo mi conducesse verso l’entrata di un negozio poco più avanti che
si rivelò poi essere un oculista.
L’uomo
fu gentile e cortese, ascoltò attentamente quando cercai di spiegargli quali
fossero i miei problemi, dopodiché sotto lo sguardo attentissimo di Leo, mi
sottopose a una breve visita oculistica.
«Il
disturbo della signorina è molto comune,» spiegò una volta terminato, affrettandosi
a scrivere i risultati del controllo su un piccolo taccuino, «nulla che non si
possa risolvere con un paio di graziosi occhiali.»
Mi
incupii un po’ a quella notizia, ero ben conscia del fatto che fosse l’unica
soluzione al mio problema, tuttavia l’idea che avrei dovuto permanentemente
vivere con un paio di occhiali sul naso non mi allettava particolarmente, per
diversi motivi. Leo grugnì in direzione dell’oculista e gli intimò di mostrarci
delle montature per i miei nuovi occhiali.
L’uomo
iniziò quindi a tirarne fuori diversi tipi, posizionandoli sul bancone davanti
a noi. Osservai ognuno di essi con la rassegnazione e la tristezza che
aumentavano sempre di più. Alla fine, fu Leo a sceglierne una, non ebbi nemmeno
voglia di alzare lo sguardo per capire quale di quei cosi sarei stata costretta a indossare per il resto della vita.
L’oculista
si congratulò per la scelta e fece per prepararci la ricevuta con cui tornare
poi in seguito a ritirare gli occhiali pronti, quando Leo lo bloccò con un
gesto secco della mano e precisando con enfasi, che gli occhiali dovevano
essere pronti nel giro di qualche ora. L’uomo balbettò le sue scuse, cercando
di spiegare che la sua richiesta non era fattibile e fu in quel momento che Leo
si voltò verso di me, chiedendomi di aspettarlo fuori un istante. Dopo aver
lanciato un’occhiata incerta al povero uomo dietro al bancone, feci come mi
aveva chiesto.
Uscii
dal negozio senza più la gioia che mi aveva accompagnata entrandovi e rimasi
immobile ad aspettare. Non volevo indossare degli occhiali e, soprattutto, non
volevo indossarli tutto il giorno tutti i giorni.
Sentii
la porta dietro di me aprirsi e mi voltai sconsolata verso Leo che, non avevo
alcun dubbio vista la sua espressione soddisfatta, era riuscito ad affrettare i
tempi della consegna. Anche lui doveva aver notato il mio cambio d’umore perché
mi afferrò rudemente per un braccio e mi issò a bordo della carrozza che ci
aspettava, sbattendosi lo sportello alle spalle.
«Che
c’è?» chiese irritato, mentre mi premeva contro il seggiolino con una mano. Io
scostai lo sguardo, voltando il capo verso il via vai cittadino che vedevo scorrere
all’esterno e lui, con un ringhio, allungò una mano per tirare le tendine
scure.
«Rispondimi,
Desdemona,» sibilò mentre si scostava da me per chiudere anche l’altra tendina
nascondendoci agli occhi del mondo.
«Niente,» sputai fuori, con forse più risentimento
nella voce di quanto ne provassi sul serio. La sua reazione fu istantanea,
scattò in avanti afferrandomi per un polso e strattonandomi finché non fui
schiacciata contro di lui. I suoi occhi gelidi mi fissarono per un lungo
istante poi, sempre nel silenzio più assoluto, mi voltò di lato e spinse
rudemente giù facendo forza con una mano sulla mia schiena, in modo che fossi
distesa sulle sue cosce, il volto a un soffio dal pavimento della carrozza. Mi
puntellai con le mani a terra, confusa e ancora un po’ irritata.
Leo
mi scostò le gonne, e con orrore sentii l’aria fredda della carrozza sfiorarmi
le natiche nude. Serrai gli occhi e mi morsi le labbra, sperando che a nessuno
venisse in mente di fermarsi a guardare più attentamente attraverso le sottili
tende della carrozza.
Il
primo colpo arrivò di sorpresa, più duro del solito a causa dei guanti,
facendomi mugolare per il dolore dell’impatto improvviso, strinsi i pugni
premendo la fronte contro gli avambracci per cercare di mitigare il dolore e
riuscire allo stesso tempo a trattenere i rumori che avrebbero sicuramente
attirato l’attenzione di qualcuno.
Il
secondo schiaffo arrivò ancora più pesante del primo, il rumore della mia carne
tenera che veniva schiaffeggiata riverberò nel piccolo abitacolo, sussultai,
sperando con tutta me stessa di essere l’unica a sentirli così forti.
Il
mio Signore continuò impietosamente a colpirmi, schiaffo dopo schiaffo, in un
silenzio che veniva rotto solo dal suono dei suoi spessi guanti che schioccavano
contro le mie natiche. Ogni colpo bruciava e sfrigolava sulla mia pelle sempre
più sensibile e alla fine non riuscii più a trattenere i gemiti e i piccoli
urli che mi stavano provando.
Quando
si ritenette soddisfatto smise di percuotermi, mi fece sollevare con cautela,
abbassandomi di nuovo le gonne. Tornò a fissarmi, questa volta con uno sguardo
un po’ più caldo di prima e sollevò una mano per carezzarmi una guancia
arrossata.
«Ora
vuoi dirmi cos’hai?»
Seduta
sulle sue gambe, mentre mi accarezzava con una mano e con l’altra mi circondava
dolcemente la vita, mi sentii improvvisamente molto infantile. Vergognandomi
per quanto accaduto e non riuscendo più a sostenere il suo sguardo, mi
rannicchiai nel suo abbraccio poggiandogli la guancia sul petto e cercando di
farmi ancora più piccola. Sollevai debolmente una mano, per seguire i contorni
del gilet scuro che si era messo sopra la camicia quel giorno.
«Non
voglio gli occhiali,» bisbigliai alla fine, così debolmente che per un istante
sperai e temetti non mi avesse udita. Lui sospirò, lasciandosi andare
mollemente contro lo schienale e io mi accomodai meglio contro il suo petto,
concentrata ad ascoltare i battiti del suo cuore.
«Perché
no? Ti aiuteranno a vedere meglio.»
Annuii,
continuando a tracciare con il dito la superficie del tessuto.
«Perché
sono brutta e con gli occhiali lo sarei ancora di più.»
Sentii
Leo attorno a me irrigidirsi poi le sue mani salirono a incorniciarmi il viso,
spostandomi gentilmente dal suo petto così che potessimo guardarci negli occhi.
Vidi qualcosa che non avevo mai visto sul suo volto, qualcosa che mi parve un
misto di tristezza infinita e pena.
«Non
sei tu che parli, è tua madre.»
Era
davvero lei? Non lo sapevo più nemmeno io. Forse era lei, forse le matrone
dell’alta società, ma ormai avevo convissuto così tanti anni accettando l’idea
di essere brutta, che non sapevo più dove finissero i loro commenti e dove
iniziasse il mio pensiero. Sollevai le spalle, cercando di sorridere
debolmente.
«Forse.
Non lo so,» risposi mestamente e lui ringhiò frustrato, sbattendo violentemente
il capo contro la parete della vettura.
«Dannata
sia quella donna,» esclamò adirato, tirandomi più vicina così che le nostre
labbra potessero unirsi brevemente.
«Tu,»
disse tornando a guardarmi, «sei la donna più bella che io abbia mai visto in
tutto questo cazzo di mondo e, credimi bimba, ho viaggiato parecchio.»
Sorrisi
e mi sentii arrossire per il complimento, come succedeva sempre.
«Ti
ringrazio,» bisbigliai sollevando le mani per seguire con le dita i contorni
del suo volto, «ma dubito fortemente che sia la verità.»
Già
solo mia madre era abissalmente più bella di me, per non parlare della duchessa
che avevo solo intravisto, sebbene sfocata, ma che mi era sembrata comunque
magnifica. Leo gemette esasperato e mi afferrò le mani, costringendomi ad
abbassarle verso il suo inguine.
«Lo
senti questo?» ringhiò a un soffio dal mio orecchio mentre mi costringeva a
tastargli l’erezione che gli premeva contro i pantaloni. «Questo sei tu a provocarlo, solo tu.»
Mi
fissò per un lungo istante, le mie mani ancora poggiate sul suo rigonfiamento.
«Quindi,
no, non mento,» aggiunse, liberandomi dalla sua presa, «tu sei bella e riuscirò a ficcartelo in testa, dovessi impiegarci
tutta la vita.»
Avrei
voluto piangere per quanta intensità e passione gli vidi nello sguardo, era
così bello che mi vedesse in quel modo, anche se io dubitavo ci sarei mai
riuscita. Sorrisi annuendo piano, spostando le braccia e circondandogli il
collo per abbracciarlo.
Mi
tenne stretta in silenzio, cullandomi dolcemente sul suo grembo, mentre sentivo
attorno a noi i rumori della città che proseguivano indifferenti.
«Che
dici, secondo te, questa città ha una libreria?» Sorrisi, strusciando il mento
contro la sua spalla, gli occhi che mi pizzicavano terribilmente. «Se non ce
l’hanno,» mormorai con la voce roca, «credo potrei anche decidere di tornarmene
immediatamente a Londra.»
Lo
sentii ridacchiare, il petto che vibrava dolcemente sotto di me.
«Allora
dovremo impegnarci con tutte le nostre forze per riuscire a trovarne almeno
una. Che dici, ti va?»
Il
mio sorriso si allargò ulteriormente e mi staccai da lui quanto bastava per
depositargli un piccolo bacio sul mento.
«Mi
piacerebbe molto.»
Appena
mi fui calmata a sufficienza da riuscire a scendere, tornammo a immergerci
nelle lunghe vie della città, camminavamo lentamente uno accanto all’altra, le
persone vedendoci si scostavano a causa dell’espressione truce sul volto di
Leo.
«Stai
spaventando i passanti,» gli bisbigliai quando ci fermammo a guardare la
vetrina di una gioielleria, lui grugnì secco.
«Meglio,
così ci stanno lontani,» sentenziò lapidario indicando poi con un gesto del
mento il vetro. «Te ne piace qualcuno?»
Osservai
i gioielli esposti, erano tutti meravigliosamente brillanti, con pietre
preziose di ogni colore e dimensione.
Il
mio sguardo venne attirato in un angolo della vetrinetta, dove era stata
poggiata una magnifica collana di diamanti con un pendente a goccia di rubino.
Era magnifica e me ne sentii attratta in modo quasi irrefrenabile ma, a
giudicare dalla bellezza, era troppo costosa per me. A forza, distolsi lo
sguardo dalla vetrina e lo posai su Leo.
«Sono
tutte meravigliose,» risposi sorridente. Leo mi scoccò un’occhiata strana, ma
non disse altro, riprendendo a camminare lungo la strada.
Passeggiamo
accanto al fiume e inspirai a pieni polmoni l’aria pulita che spirava in quella
zona, sentendomi per un breve istante totalmente in pace.
Finalmente
riuscimmo a trovare una libreria, piccola ma ben fornita, nascosta in una via
parallela a quella principale.
Il
proprietario, un uomo piccolo e smilzo, ci accolse con gioia, come se non
vedesse clienti da anni. Mi dispiacque molto per lui e, colta da una smania
improvvisa, chiesi a Leo se potevo comprare qualcosa.
«Tutto
quello che vuoi,» mormorò lui, carezzandomi piano la nuca. Felice come non mai,
mi addentrai rapida tra gli scaffali e i tavoli ricolmi di tomi, osservando
attentamente ogni copertina, sfogliando cautamente le pagine dei libri che
maggiormente attiravano la mia attenzione, con Leo che mi seguiva silenzioso e
attento.
Dopo
quasi un’ora, le mie braccia e quelle di Leo erano cariche di libri e, quando
mi voltai verso di lui realizzando quanti volumi avessi effettivamente preso,
sussultai lanciando un’occhiata prima alla pila tra le sue mani, poi alla mia.
«Forse
ho esagerato, dovrei posarne qualcuno…» sospirai abbattuta, mi ero decisamente
lasciata trasportare dal momento e stavo oltremodo approfittando della bontà di
Leo, ma lui scosse la testa avviandosi verso il bancone dove si trovava il
proprietario.
«Prendiamo
questi,» annunciò lasciando cadere la pila di libri sul bancone, così forte da
far sussultare l’uomo, poi indicò me con un cenno del capo, «e tutti quelli che
ha in mano lei.»
L’uomo
annaspò sorpreso, gli occhi che brillavano per la contentezza, si profuse in
mille inchini mentre mi avvicinavo per poggiare anche i miei libri, leggermente
imbarazzata ma anche indicibilmente felice.
«Non
avresti dovuto,» mormorai uscendo dal negozio tra mille ringraziamenti del
proprietario e il caldo invito a tornare presto, «ma grazie.» Sorrisi
guardandolo e avvicinandomi impercettibilmente a lui. Leo grugnì sistemandosi
meglio i pacchetti con i libri che aveva insistito per portare da solo e si
avviò a grandi falcate verso la cima della via.
Trotterellai
felice al suo fianco e sorrisi quando lo sentii urlare a Stevenson di sbrigarsi
ad aprirgli la portiera della carrozza.
Il
maggiordomo fissò lui e i pacchi con un sorriso divertito, scendendo molto lentamente
dalla sua postazione con il preciso intento di innervosirlo e prendersi anche
un po’ gioco di lui. Sorrisi vedendo l’occhiata truce che Leo gli rivolse e la
totale finta indifferenza e ingenuità con cui Stevenson la ignorò.
Una
volta sistemati i libri, Leo volle mostrarmi un altro negozio, curiosa, mi
lasciai accompagnare in giro per la città finché non arrivammo davanti a un
negozio di stoffe. Sempre più perplessa, mi lasciai condurre dentro e, quando
la donna dietro al bancone ci vide entrare, non riuscì a trattenere un’esclamazione
gioiosa.
«Signor
Fortescue, bentornato!» esclamò esuberante, girando rapidamente attorno al
mobile per venirci ad accogliere personalmente.
«E
voi,» disse guardandomi allegramente e inchinandosi, «dovete essere la
signorina Fortescue.»
Annuii,
lanciando una rapida occhiata perplessa in direzione di Leo, che però fissava
dritto davanti a sé in direzione dei tessuti esposti in bella vista.
«Siete
davvero molto fortunata, signorina,» disse la donna, avvicinandosi
impercettibilmente a me, come se volesse confidarmi un qualche segreto,
«raramente mi capita di vedere uomini entrare volontariamente nel mio negozio,
men che meno per farsi fare un tale numero di abiti!» Rise, molto divertita
dalle sue stesse parole. «Vostro zio deve adorarvi molto.»
Arrossii
sorridendo timidamente.
«Penso,»
iniziai titubante, «che voglia solo rimettersi in pari con i doni per tutti gli
anni di lontananza.»
La
donna ridacchiò e mi fece segno di seguirla verso i tessuti.
«Allora,
immagino che dovrà comprare ancora molti abiti prima che voi possiate
dichiararvi soddisfatta, giusto?»
In
realtà no, Leo non aveva niente da farsi perdonare e a me i vestiti non
interessavano poi tanto, ero molto più soddisfatta e felice per lo spropositato
numero di libri che mi aveva appena comprato senza nemmeno battere ciglio, ma
non volevo contraddire la donna, quindi mi limitai a sorridere.
Con
la coda dell’occhio, notai Leo che si voltava in direzione della porta e il mio
cuore schizzò in gola, terrorizzato all’idea che potesse lasciarmi lì da sola.
«Signore,»
iniziò lui con la mano già poggiata sulla maniglia, «posso fidarmi a lasciarvi
da sole per qualche minuto? Ho delle faccende urgenti da sbrigare.»
Mi
si chiuse la gola, avrei voluto urlargli che no, non andava affatto bene che mi
lasciasse da sola in compagnia di una perfetta estranea, che non potevo
sopportare la sua assenza nemmeno per pochi minuti, ma la proprietaria rispose
prima che potessi anche solo aprire bocca.
«Certo,
andate pure, Signore,» ridacchiò scostandosi all’indietro i lunghi capelli
biondo cenere, «vedremo di non spendere troppo in vostra assenza.»
Leo
grugnì e posò lo sguardo su di me, ci fissammo in silenzio per un istante che
parve lungo una vita.
«Torno
subito,» dichiarò serio e io annuii lievemente. Avrei resistito, potevo
farcela.
Lui
uscì lasciandomi solo con la donna che iniziò subito a mostrarmi una quantità
indicibile di stoffe, indicandomele con le sue lunghe dita affusolate.
Francamente,
non mi interessava molto nessuno di quei tessuti ma, per farla contenta, ne
scelsi uno di un azzurro tendente al violetto.
La
donna assentì soddisfatta per la mia scelta e girò il bancone, afferrando un
lungo nastro e indicandomi il retro del negozio.
«Venite
pure, signorina, così posso prendervi le misure.»
Mi
congelai terrorizzata, in quel momento più che mai consapevole della mia nudità
a malapena celata dalle gonne.
«N-non
serve, grazie,» balbettai, un gelido freddo che si impossessava di me mentre mi
scostavo dai tessuti.
«I
vestiti che mi avete già fatto mi stanno tutti bene, quindi qualsiasi misure
abbia usato, vanno più che bene.»
La
donna si accigliò, il nastro ancora stretto tra le mani, sapevo che per una
sarta le misure erano essenziali, ma in quel momento non potevo cedere.
Alla
fine, la vidi accettare la mia decisione con un sospiro rassegnato e tornare
verso il bancone con un sorriso di chi aveva fatto della pazienza la propria
virtù.
Sentendomi
un pochino in colpa, scelsi un’altra stoffa, ma di un rosso un po’ cupo che,
pensai istintivamente, sarebbe stata benissimo con la collana che avevo visto
prima.
La
donna riprese il suo normale atteggiamento entusiasta, elogiando la qualità
delle trame e promettendo di crearne abiti meravigliosi. In quel momento, Leo
fu di ritorno e il mio cuore riprese il suo normale battito.
Gli
sorrisi e mi avvicinai a lui, felice che fosse tornato così rapidamente.
«Quindi
ditemi…» iniziò guardando prima me e poi la proprietaria, «sono già rovinato?»
Ridacchiai
scuotendo il capo.
«Questa
volta vi siete salvato.»
Sbuffò
sonoramente e io sorrisi ancora, sopprimendo l’istinto di gettarmi tra le sue
braccia.
La
commessa si incaricò di far consegnare immediatamente gli abiti una volta
pronti, così, pagati i nuovi acquisti, tornammo in strada.
«Ora,»
esclamò Leo conducendomi verso un’altra via poco transitata, «andiamo a cercare
Andrew.»
Giusto, pensai
sorpresa mentre lo seguivo per le vie della città, ero stata così assorbita dai
miei problemi e da Leo che non mi ero nemmeno accorta dell’assenza di Andrew.
Leo
sapeva però evidentemente dove andarlo a cercare, e infatti, svoltato un
angolo, lo trovammo fermo davanti a un negozio che vendeva giochi e accessori
per animali.
«Vuoi
prenderti un cane, Kerr?» lo apostrofò Leo, vedendolo intento a fissare un
assortimento di guinzagli e collari di cuoio.
Drew
sussultò udendo la sua voce e si voltò a guardarci, lo spavento sul suo volto rapidamente
sostituito dalla felicità.
«Oh,
magari sì, Fortescue,» dichiarò allegro venendoci incontro. «Vogliamo andare a
pranzo? Sento un certo languorino,» esclamò poi, facendoci segno di seguirlo
lungo la strada. Procedemmo in silenzio e, quando passammo anche noi davanti
alla vetrina del negozio di animali, il mio sguardo venne catturato da un
piccolo collare di cuoio bordato di diamanti. Un lampo mi guizzò attraverso la
mente, riportandomi alla memoria stralci di lettere e conversazioni che avevo
avuto con Leo.
“Ti metterei un collare, così
che tutti possano sapere a chi appartieni. Così che tutti sappiano che sei
mia.”
“Come una brava cagnolina in
calore ti godresti ogni singolo momento, ogni mio violento affondo nel tuo
piccolo corpo, mi supplicheresti per averne di più.”
Allora,
mi vidi chinata a quattro zampe con indosso solo quel collare e Leo dietro di
me che spingeva rudemente nel mio corpo.
Improvvisamente,
quella semplice striscia di cuoio mi sembrò molto più bella della collana di
diamanti.
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