Capitolo 25

 

“Quello che facciamo, che ci diciamo, è qualcosa di sbagliato?”


“Certo che lo è, per questo è così bello.”

 

 

Venni svegliata da un raggio di sole che penetrava dalla finestra chiusa, sbattei le palpebre, strofinandomi gli occhi e sorridendo beata. La notte prima era stata meravigliosa ed ero sicura che l’esperienza non poteva che migliorare. Leo mi aveva permesso di esplorarlo come tanto desideravo, avevo percorso con le dita e con le labbra ogni tratto del suo corpo, venerando quella pelle e imparandone ogni segno, ogni neo, ogni cicatrice. Durante la nottata, avevo scoperto quali punti toccare per eccitarlo e anche quali toccare per fargli il solletico. Leo era stato così paziente con me, era rimasto fermo sotto il mio tocco, incoraggiandomi con le parole o con lo sguardo, e io mi ero sentita così bene, così euforica, da provare a osare ancora di più. Gli avevo afferrato l’erezione tra le mani, osservandola pulsare tra i miei palmi, rossa e gocciolante. Mi ero quindi inginocchiata tra le sue gambe aperte e l’avevo accarezzato lentamente, sentendolo gemere e alzare il bacino per muoversi assieme a me. Affascinata, avevo fatto scorrere delicatamente le mie unghie sulle venature che lo percorrevano, fino ad arrivare alla punta lucida e gonfia.

«Bimba,» gli era uscito quasi come un sospiro dalle labbra, «così mi ammazzi.»

Avevo sorriso timidamente e mi ero abbassata ancora di più, sporgendo la lingua per leccargli la punta dell’erezione.

Con un rantolo, tutto l’autocontrollo di Leo era svanito, mi aveva afferrata per le spalle, ribaltata sul letto ed era entrato in me senza nessuna delicatezza. Mi ero inarcata, sotto di lui e gli avevo conficcato con forza le unghie nella schiena.

Sospirai felice allungano cautamente una mano per accarezzarlo ancora addormentato. Dormiva stando completamente disteso sopra di me, con una delle mie gambe intrappolata tra le sue, le braccia che mi circondavano tenendomi stretta in vita e il capo appoggiato sul mio seno.

Era stato così bello scoprire che amava il contatto fisico, tanto quanto lo amavo io.

Leo mugolò e si mosse per venire incontro alla mia carezza, sorrisi facendogliela scorrere lentamente tra i capelli.

«Sei troppo mattiniera tu,» grugnì inspirando bruscamente, ancora col volto appoggiato sul mio petto. Ridacchiando mi stiracchiai sotto di lui, sentendo le sue braccia stringersi con più forza attorno a me.

«Non è colpa mia,» provai a giustificarmi, «starei ancora dormendo se non ci fosse quel raggio di sole che punta proprio sulla mia faccia.»

Lui si issò sulle mani e io potei ammirare il suo corpo nudo nella gloriosa luce del mattino, avvampai con la mente piena di ricordi degli eventi della notte precedente.

Leo lanciò un’occhiata alle sue spalle, in direzione della finestra, poi senza nessuna grazia, mi ruotò sul letto in modo che il sole non potesse più colpirmi il volto, e tornò a stendersi addosso a me.

«Problema risolto,» sospirò posizionandosi comodamente con un braccio sopra la mia vita e una gamba a coprire mie, «ora dormi.»

Avrei voluto ridere di quanto Leo sembrasse un bambino di prima mattina, ma era così tenero vedere quel suo lato, e scorgere la dolcezza di quelle sue premure superò il divertimento di vederlo fare i capricci.

Sospirai serena strusciandomi contro di lui e passandogli un braccio sopra il suo, per tenerlo stretto a mia volta. Non mi riaddormentai, non ero mai stata capace di farlo; una volta sveglia il danno era fatto, ma rimasi comunque serenamente distesa con gli occhi chiusi ad ascoltare il respiro di Leo farsi sempre più profondo e regolare. Desiderai che il tempo si fermasse, così da poter vivere per sempre quel momento così perfetto, in modo che niente di brutto potesse raggiungerci, che niente potesse frapporsi fra di noi e farci dividere. Ma le mie fantasie si interruppero bruscamente pochi minuti dopo, quando Stevenson prese a bussare alla porta.

«Leo!» lo chiamò quasi esasperato, «oggi devi uscire, smettila di poltrire e scendi a fare colazione.»

Lui grugnì ad alta voce, infastidito, e affondò ancora di più il volto nella mia pelle.

«Smettila di fare il bambino o entro!»

In un attimo Leo si tirò a sedere, perfettamente sveglio.

«Provaci e ti ammazzo su quel cazzo di uscio,» urlò lui, scendendo dal letto e andando a recuperare i suoi vestiti.

«Bene,» decretò la voce del maggiordomo dietro la porta e, per qualche motivo, mi parve di sentire un leggero divertimento nel suo tono, «ti do cinque minuti, poi torno.»

Leo imprecò aprendo il suo armadio e tirando fuori l’ennesima camicia scura, infilandosela frettolosamente.

Io rimasi a fissare la scena, seduta sul letto con le gambe strette al petto, leggermente divertita da come Stevenson riuscisse a far scattare sull’attenti anche una persona come lui. Quando si udirono i passi dell’uomo scendere le scale, Leo tornò a rivolgere la sua attenzione su di me.

«Maledetto,» disse avvicinandosi al letto e carezzandomi i capelli, «se ne approfitta perché sa che ci sei tu. Dopo gli tirerò un pugno.»

Risi, anche se mi imbarazzava ancora molto il fatto che tutti sapessero cosa stava succedendo tra me e Leo. A parte ciò, mi aiutò ad alzarmi e mi tirò a sé per baciarmi, poggiandomi le mani sulle natiche e strizzandole piano. Gemetti, allungandomi per potergli circondare il collo e approfondire il bacio, facendo scivolare la mia lingua nella sua bocca. Emise un brontolio soddisfatto e, improvvisamente, una delle sue mani calò rapida sul mio sedere, assestandomi un sonoro schiaffo. Annaspai interrompendo il bacio e guardandolo sorpresa, la bocca aperta in un urlo silenzioso e la natica che bruciava.

Leo mi fissò divertito, poi mi assestò un’altra pacca più forte della prima, mi inarcai verso di lui sentendo il bruciore trasformarsi in quel pizzicore peccaminoso che mi mandava a fuoco i sensi. L’altra mano del mio Signore, si insinuò tra i nostri corpi e andò a toccare il mio sesso giù umido.

Gemetti spingendomi ancora di più verso di lui che, con un ghigno soddisfatto, infilò due dita dentro di me. Boccheggiai in cerca d’aria mentre le percosse riprendevano e le sue dita si muovevano dentro e fuori, stuzzicandomi fino quasi a condurmi alla follia.

«Signore,» gemetti, i capezzoli duri che sfregavano contro la stoffa della sua camicia, «vi prego.»

Lui rise, chinandosi quanto bastava per arrivare a prendere in bocca il lobo del mio orecchio.

«Sei così bagnata,» disse, quasi gemendo, «così stretta.»

Il suo pollice sfiorò quel punto che mi faceva letteralmente impazzire e io urlai aggrappandomi con tutte le mie forze a lui, così vicina a raggiungere l’orgasmo. Poi, tutto finì.

«Bene,» decretò allontanandosi e sfilando le dita dal mio corpo, «ora puoi vestirti e scendere in camera tua per prepararti.»

Lo guardai sconvolta, immobile, completamente nuda davanti a lui, fremente per il desiderio. Lui sorrise perfidamente, limitandosi a passarmi la sottoveste che aveva raccolto da terra.

«Ti avevo detto che ti avrei punita oggi, no?» spiegò, chinandosi per guardarmi dritto negli occhi. Io annuii, improvvisamente conscia di quello che mi aspettava quel giorno: una lunga e prolungata tortura. Obbedendo al suo ordine, indossai rapidamente i miei abiti e mi diressi al passaggio segreto, lui mi raggiunse e mi baciò una spalla da dietro.

«Un’ultima cosa prima che tu vada,» mi mormorò, il suo fiato caldo che mi carezzava delicatamente la nuca facendomi rabbrividire, «non indossare la biancheria.»

Mi voltai scioccata per guardarlo dritto negli occhi, ma lui mi aveva già spinta oltre la soglia del passaggio.

«Ti concedo le calze, nient’altro.»

Prima che potessi replicare in alcun modo, aveva già chiuso la porta.

 

Quella mattina, vestirmi fu parecchio strano: infilai la sottoveste e le calze ma non indossai altro e quando poi entrai nel vestito. Sentire la pelle nuda al di sotto mi provocò una strana sensazione, un po’ a disagio, ma anche bene sapendo che stavo comunque obbedendo al mio Signore.

Per fortuna, Abigail e Julie arrivarono un po’ più tardi e mi aiutarono solo a chiudere l’abito e ad acconciarmi i capelli, altrimenti sarei morta per l’imbarazzo.

Scesi per la colazione con la consapevolezza persistente di essere senza biancheria, a ogni passo la carne strusciava e io mi guardavo attorno, impaurita, sicura che tutti se ne sarebbero accorti, che fosse palese. Ma né Abigail o Julie, né nessun altro sembrava consapevole del mio disagio, si comportarono tutti allo stesso identico modo di sempre e, sedendomi a tavola, mi chiesi come fosse possibile non accorgersene. Durante il pasto, solo una volta mi arrischiai a lanciare un’occhiata verso Leo, che proprio in quel momento si voltò a guardarmi, con un sorriso sornione sul viso.

Lui vedeva il mio disagio, il mio imbarazzo e sapeva che gli avevo obbedito, che me ne stavo seduta in una stanza piena di uomini senza indossare l’intimo.

Mangiai frettolosamente il mio pasto, troppo imbarazzata da quella novità per prestare veramente attenzione alla conversazione che si stava svolgendo a tavola. Quando poi arrivò il momento di entrare in carrozza per dirigersi in città, il nervosismo dilagò senza freni dentro di me. Mi voltai a guardare Leo mentre indossava il suo cappello nero e cercai di supplicarlo con lo sguardo. Lui si limitò a indicarmi con un gesto secco la carrozza e io vi montai aiutata da Stevenson, sconsolata e sempre più agitata.

Partimmo da soli, poiché Andrew non aveva alcuna voglia di stare chiuso in un cubicolo mortale – come l’aveva definito lui –, preferendo precederci a cavallo.

«Andrew soffre leggermente di claustrofobia,» mi spiegò Leo mentre la carrozza usciva dal vialetto della tenuta e si immetteva sulla strada. Annuii, senza ascoltarlo davvero.

«Lo sai, vero,» iniziò lui togliendosi il cappello e poggiandolo sul sedile accanto a sé, «che puoi usare la tua parola di sicurezza?»

Di nuovo, annuii fissandolo.

Lo sapevo, ovviamente, ma non volevo usarla. Non volevo che mi credesse così vigliacca da non poter eseguire nemmeno un ordine così banale.

Lui mi studiò attentamente per qualche istante poi batté una mano coperta dal guanto sullo spazio vuoto alla sua destra.

«Poggia un piede qui.»

Non conoscevo le sue intenzioni, ma ubbidii, sollevando il piede finché non arrivai con la pianta a toccare il bordo del sedile. Dopo, Leo mi indicò con un altro colpo lo spazio alla sua sinistra e io sollevai anche l’altro piede, intrappolandolo così tra le mie gambe.

«Adesso non muoverti per nessun motivo,» mi intimò, prima di chinarsi e sparire sotto le mie gonne. Sentii un tonfo sul pavimento della carrozza e ipotizzai si fosse inginocchiato, poi le sue labbra furono su di me.

Mi tappai la bocca con una mano, per impedirmi di urlare e richiamare così l’attenzione di Stevenson e del cocchiere che stavano fuori.

La lingua di Leo mi penetrò, mentre le sue mani guantate mi tenevano aperta per permettergli di spingersi più in profondità.

Serrai gli occhi mordendomi le labbra e sentendo le gambe tremare per lo sforzo di tenerle sollevate. L’assalto di Leo continuò implacabile, sfilò la lingua solo per prendere in bocca quel rigido nocciolo di carne tra le mie gambe, che ogni volta mi faceva perdere la testa. Mossi i fianchi, fremendo dal disperato bisogno di sentirlo affondare dentro di me. Rabbrividii sentendo la sua barba sfregare contro quella parte sensibile del mio corpo, mentre con la bocca succhiava e leccava quella sporgenza così sensibile.

Era così sbagliato e sconveniente quello che stavamo facendo, chiunque avrebbe potuto vederci dai finestrini, compresi il cocchiere o Stevenson in caso si fossero voltati verso di noi. In quel momento, arrivai a realizzare molto confusamente, che una piccola parte della mia eccitazione era dovuta anche a quello. Era proprio il rischio di essere scoperti che lo rendeva così fantastico. Gemetti piano spingendomi contro la bocca di Leo ma lui, ancora una volta, si staccò da me un attimo prima che potessi raggiungere il piacere.

Uscì da sotto le mie gonne con un ghigno soddisfatto e si rimise comodamente seduto al suo posto.

«Puoi abbassare le gambe ora,» mi concesse magnanimo, e io le lasciai scivolare sul pavimento della carrozza con un tonfo. Lui sorrise sarcastico.

«Ti senti meglio?»

Avrei tanto voluto rispondergli che no, non stavo affatto meglio e che anzi, se possibile stavo peggio di prima, ma avrei mentito spudoratamente.

Strinsi le cosce, sentendo il mio sesso bagnato e ipersensibile a qualsiasi mio movimento.

«Da una parte sì,» ammisi sistemandomi meglio a sedere, «dall’altra, assolutamente no.»

Ridacchiò e poi lentamente, si passò la lingua sulle labbra, fissandomi per tutto il tempo. Lo osservai rapita e mi trovai a gemere piano, spingendo inconsciamente il bacino in avanti.

«Bene così,» decretò alla fine, spostando il suo sguardo fuori dal finestrino. Lo fissai per diversi istanti, non riuscendo a trattenere un sorriso. Solo lui poteva farmi sparire l’agitazione per qualcosa di vergognoso chiedendomi di fare qualcosa di ancora più indecente. Quella giornata in città era improvvisamente diventata ancor più interessante.

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