Capitolo 2

 

Il viaggio di ritorno verso casa all’inizio fu teso e silenzioso. Mio padre fissava distrattamente il paesaggio fuori dal finestrino della carrozza, come se non avvertisse l'ostilità sprigionata da sua moglie. Io invece cercavo di incastrarmi il più possibile nell'angolo dell'abitacolo in cui mi ero andata a sedere. Sapevo molto bene che quando mia madre era di pessimo umore e non poteva prendersela col diretto interessato - che il più delle volte era proprio mio padre - si sfogava su di me. In effetti lo faceva anche senza un valido motivo.

Quando eravamo tornati alla carrozza, lei mi aveva scoccato un'occhiata truce, una di quelle che mi facevano gelare il sangue nelle vene. Sapevo bene cosa significava quello sguardo rivolto nella mia direzione, quindi mi ero ben guardata dal sedermi di fronte a lei, scegliendo di affiancarla nella speranza che, non avendo davanti me ma l'oggetto della sua ira, potesse lasciarmi in pace. Almeno fino a casa.

Evidentemente chiedevo troppo alla vita, perché dopo pochi minuti trascorsi a lanciare sguardi di fuoco a mio padre, si era voltata nella mia direzione e io mi ero sentita raggelare.

«Lo sai cosa significa questo per te, vero?»

Non capivo a cosa si riferisse e la sua faccia che mi osservava severa non mi aiutava a pensare lucidamente. Avevo lanciato uno sguardo in direzione di mio padre, sperando che la rimproverasse per aver parlato prima di essere arrivati a casa, come le aveva ordinato al cimitero, ma lui aveva continuato a scrutare fuori dal finestrino, indecifrabile.

«Io...» ero riuscita a mormorare alla fine. «Non so a cosa vi riferiate, madre.»

La sua espressione si era fatta ancora più cupa, e non potei fare a meno di deglutire. Mia madre non era il tipo di donna che normalmente avrebbe potuto incutere terrore, anzi, i lunghi capelli neri lisci come seta e i grandi occhi nocciola che la facevano apparire sempre come una bambina, uniti alla pelle d'alabastro e alla delicata forma ovale del suo viso, le conferivano un aspetto quasi fanciullesco; ma io che ben sapevo cosa si celasse dietro quella che in apparenza era una dolce donna, tremavo sotto il suo sguardo infuriato.

«Tuo nonno è appena morto, sciocca. Ciò significa che dovremo stare chiuse in casa per portarne il lutto per un intero anno. Perderai l’ultima occasione buona per trovarti un marito non potendo partecipare a questa stagione!»

Poi, mi aveva scrutato lentamente da capo a piedi.

«Non che avessi comunque qualche speranza,» aveva concluso serafica, sapendo bene quanto ogni sua parola mi facesse soffrire.

Ero cosciente di non essere bella, né tanto meno di poter sperare di essere affascinante e aggraziata come lei, dalla quale differivo sotto tutti gli aspetti fondamentali.

Ero bassa, avevo lunghi capelli castani e ricci, occhi di un banalissimo e slavatissimo blu che non riuscivano più a vederci bene; se lei riusciva a mostrarsi solare e divertente in pubblico all’occorrenza, io ero incapace di fingere sentimenti che non provavo, non riuscivo a relazionarmi col resto della società.

Mamma al mio confronto era una dea, algida e perfetta. Una divinità di cui perfino io che ne ero figlia non avrei saputo determinare l’età. In pubblico non commetteva mai errori, danzava divinamente qualsiasi ballo e sapeva conversare come da etichetta, io se riuscivo a non inciampare nei miei stessi piedi e a rispondere ai saluti che mi venivano rivolti lo consideravo già un enorme traguardo.

Tra le due io non ero nessuno e questo lei lo sapeva bene.

Pertanto, non risposi al suo commento, voltai la testa di lato, sperando che osservare il paesaggio fuori dal finestrino, come aveva continuato a fare imperterrito mio padre, la scoraggiasse a continuare.

 

Il resto del viaggio trascorse in relativa tranquillità, solo di tanto in tanto mia madre mugugnò qualcosa a proposito della strada troppo dissestata per i suoi gusti o per la scomodità dei sedili di quella carrozza di seconda mano, ma né io né mio padre le demmo corda, quindi dopo poco smise di lamentarsi.

Quando finalmente scendemmo dalla carrozza fu comunque un enorme sollievo per me respirare a pieni polmoni. Osservai per un breve istante la piccola casa dove ci eravamo trasferiti a vivere da qualche anno, da quando cioè un incendio aveva quasi raso al suolo la nostra vecchia abitazione, nonché residenza dei conti Fortescue da generazioni. Questa al confronto non era nulla di eccezionale, una piccola casa a schiera situata in una delle vie periferiche di Londra, e quindi economicamente più accessibile per le finanze ormai ristrette di mio padre.

Mi piaceva quella casa: aveva un piccolo giardino sia davanti che dietro, inoltre, al secondo piano, proprio accanto alla mia camera da letto, c’era un piccolo studio che mio padre usava raramente e che quindi avevamo adibito anche come biblioteca. Quella era la mia stanza felice, il posto dove mia madre non entrava mai e dove quindi ero sicura di poterle sfuggire per qualche ora di tranquillità.

Sollevai la lunga gonna nera e mi avviai verso il portone, seguendo mio padre e sentendo dietro la schiena gli occhi di mia madre. La nostra conversazione non era terminata.

Quando entrammo in casa, la pendola nel piccolo atrio segnava che erano da poco trascorse le dieci, c’era ancora tempo prima di pranzo eppure riuscivo già a sentire un flebile odore di minestra giungere dalla cucina dove sicuramente Molly, la nostra fedelissima cuoca, stava già escogitando modi fantasiosi per servirci la stessa pietanza del giorno prima, senza però farci accorgere della cosa.

Quando Joseph, il nostro maggiordomo, ebbe chiuso la porta e ci ebbe aiutato a togliere soprabiti e scialli, si avvicinò frettolosamente a mio padre mettendogli tra le mani una sottile lettera con un sigillo di ceralacca rosso scuro, bisbigliandogli un paio di frasi a voce così bassa che persino io che mi trovavo accanto a loro non potei udire.

La cosa, ovviamente, non sfuggì allo sguardo di mia madre, che avanzò subito, esigendo di conoscere il contenuto della lettera.

«Saprai cosa contiene questa busta, quando e se vorrò mettertene al corrente. Ora vattene nel tuo dannato salottino privato, avrai sicuramente qualche pezzo di ricamo da finire di torturare.»

Le guance di mia madre si gonfiarono infuriate, era pronta a ribattere a tono, aveva già sollevato il suo famoso dito inquisitore per farlo, poi mio padre si voltò a fissarla, tetro.

«Vattene in camera tua, Mary. Non mi sfidare ulteriormente.»

Un attimo di silenzio in cui parve che nemmeno la pendola si muovesse, poi finalmente, mamma dovette arrendersi ancora una volta; mugugnando frasi che solo lei riusciva a sentire, si sollevò le gonne e salì le scale pestando i piedi a ogni passo.

Noi tre la osservammo sparire oltre l’angolo della balaustra poi, sentimmo la porta della sua camera chiudersi con un tonfo.

«Avete bisogno d’altro, Signore?» mormorò Joseph, spezzando il silenzio; mio padre lo congedò con un cenno del capo, troppo intento a scrutare la misteriosa lettera. «Allora sarò in cucina se avrete bisogno, ancora condoglianze per la vostra perdita, Signore, Signorina.» Quindi il maggiordomo si inchinò rispettosamente prima davanti a mio padre poi a me, subito dopo s’incamminò lungo il corridoio e sparì in cucina.

Rimanemmo solo io e papà nell’atrio. Ero combattuta tra il lasciarlo ai suoi pensieri e dirigermi in camera mia o restargli accanto per fargli capire che non era solo. Non sapevo come affrontare un lutto e, quel che ancora peggio, non avevo idea di che tipo d’uomo fosse mio padre. Mi sarebbe tanto piaciuto conoscerlo.

Rimasi quindi immobile accanto a lui, osservandolo; così come mia madre, anche lui era un bell’uomo: alto, longilineo, con intensi occhi grigi, folti capelli castani tagliati corti, con un accenno di bianco alle tempie. Aveva appena superato la quarantina e tuttavia ancora riusciva a far girare e sospirare le giovani debuttanti – e non solo loro – tuttavia, la cosa sembrava non interessargli. Nonostante ciò ero certa che, nel corso di tutti gli anni del loro matrimonio, a differenza di mia madre lui non l’avesse mai tradita.

Mi montò nel petto l’ennesima ondata di rancore, al pensiero di quanta sofferenza quella donna aveva arrecato alla nostra famiglia nel corso di tutti quegli anni. Strinsi i pugni e la mascella, avrei tanto voluto essere abbastanza coraggiosa da ribellarmi e fargliela pagare, ma ovviamente non ne ero in grado; io ero sempre inferiore a lei, ero difettosa, non avevo nessun diritto di alzare la testa e pretendere giustizia.

Finalmente, mio padre si accorse della mia presenza, voltò il capo, sobbalzando lievemente.

«Oh, cara, perdonami, non mi ero reso conto che fossi ancora qui.»

Sorrisi scuotendo il capo, non importava, venivo spesso ignorata e la mia presenza passava inosservata, non era certo una novità né una sorpresa che persino mio padre si dimenticasse di me.

«Non fa niente, volevo sapere se potevo esservi d’aiuto in qualcosa, padre.»

Il mio era un pretesto sciocco, in fondo ero presente quando aveva congedato Joseph, sapevo bene che non aveva bisogno di nulla, ma non volevo dirgli che ero rimasta ferma lì perché, semplicemente, non volevo lasciarlo solo.

Lui però, parve prendere sul serio la mia proposta, ci pensò per qualche minuto, lanciò un’ultima occhiata alla lettera ancora sigillata, poi tornò a guardarmi.

«Puoi andarmi a prendere un bicchiere di brandy dal salotto, per cortesia.»

Annuii, raccolsi le gonne e marciai a passo svelto verso il salotto alla nostra destra, dove ero certa avrei trovato la scorta di liquori di mio padre. Mille domande mi vorticavano nella mente, mille pensieri sul suo strano comportamento. Avrebbe potuto andare personalmente in salotto a prendersi da bere, oppure chiedere a Joseph, invece era rimasto imbambolato nella stessa posizione in cui era quando il maggiordomo gli aveva consegnato la missiva. Come se fosse stato l’ennesimo peso troppo grande da tollerare, l’ennesimo colpo a un corpo già duramente provato, che adesso non riusciva più né a muoversi né a pensare lucidamente.

Preso il drink, tornai il più in fretta possibile da mio padre, cercando di tenere sollevate le gonne con una mano e il bicchiere con l’altra, senza fare troppi danni o versare troppo liquore. Miracolosamente arrivai nell’atrio senza aver combinato disastri, mi avvicinai quindi alla sua figura pensierosa e gli porsi il suo brandy, ma non lo afferrò; era troppo concentrato a leggere la lettera che finalmente si era deciso ad aprire.

Il cuore mi batteva furiosamente nel petto, avevo bisogno di capire cosa stesse succedendo e perché mio padre fosse così sconvolto. Avrei voluto sporgermi a leggere dalla sua spalla ma sapevo che sarebbe stato inutile; i miei sciocchi occhi ormai non mi permettevano di leggere né di vedere bene da una certa distanza in poi.

Finalmente, terminata la lettura si voltò a guardarmi, sembrava così stanco.

«È una lettera dell’esecutore testamentario del nonno. Mi informa che la lettura delle sue ultime volontà è stata fissata tra qualche settimana e che…» Tornò a fissare la lettera, leggendo ancora una volta alcune di quelle righe. «È richiesta la presenza di mio fratello.»

Il bicchiere mi scivolò dalle mani, frantumandosi sul pavimento. Sconvolta, mi portai le mani alla bocca.

Quello significava che Leo Fortescue sarebbe tornato in Inghilterra, e il suo arrivo avrebbe decretato la mia fine.


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