Capitolo 1

 

Non ero mai stata a un funerale.

Non mi ero mai soffermata a pensare che, in effetti, tutti prima o poi muoiono. O forse l'avevo sempre saputo, ma non avevo mai pensato potesse capitare sul serio.

Almeno fino a quando la morte non si era intrufolata silenziosa nella mia vita, portandosene via un pezzo.

In quel momento, mentre fissavo la lucida bara che veniva lentamente calata nella fossa profonda, mi scontrai con la consapevolezza che prima o poi tutti attorno a me avrebbero fatto la stessa fine, me compresa. Tutti ci saremmo ritrovati chiusi in claustrofobiche scatole di legno, tutti saremmo diventati cibo per vermi.

Di fronte a una tale realtà mi sarei dovuta sentire atterrita, distrutta, spaesata; ma così non fu: rimasi immobile a osservare quella bara che a poco a poco spariva dalla mia vista.

Il Conte Gregory Hugh Fortescue II, mio nonno, era morto eppure io non riuscivo a versare una singola lacrima per lui.

Sapevo, quanto meno per logica, che l’accaduto avrebbe dovuto farmi sentire triste, quindi provavo e riprovavo ad assumere un'espressione contrita, con l’unico risultato di apparire solo tremendamente accigliata.

Non distolsi mai gli occhi dalla fossa perché sapevo, sentivo, che quelli di tutti i presenti erano puntati su di noi: per soppesare ogni nostra reazione e, in separata sede, lodarci per il grande affetto dimostrato o calunniarci per l’indifferenza. Come se tutti potessero esternare i sentimenti allo stesso modo o semplicemente fossero in grado di farlo; come se l’affetto si potesse calcolare in base a quante finte lacrime venivano versate in pubblico.

Proprio in quel momento, accanto a me udii distintamente mia madre, Mary Caroline Fortescue, cercare di trattenere i singhiozzi.

Da quando eravamo usciti di casa non aveva smesso un attimo di piangere, ed ero certa che se mi fossi voltata a osservarla in quel momento, avrei visto i suoi grandi occhi nocciola lucidi e iniettati di sangue.

Tutto a beneficio degli sguardi indiscreti, ovviamente.

Mia madre non aveva mai amato mio nonno, e negli anni si era limitata a trattarlo con fredda indifferenza. Questo non perché lui fosse odioso o cattivo, anzi, ma perché lei non aveva mai perdonato a nessuno il fatto che fosse stata costretta a un matrimonio di convenienza con mio padre, l’attuale Conte di Gloucester. Da che ne avevo memoria, non le avevo mai visto un sorriso spontaneo in faccia; quelli rivolti a me, in particolare, erano di tutt’altra natura, e speravo sempre di dimenticarli.

Mi riscossi da quei pensieri quando il sacerdote terminò la sua preghiera e tutti lentamente iniziarono a dirigersi verso di noi, profondendosi in sentite condoglianze, stringendo la mano del Conte e chinando il capo davanti a me e mia madre.

Poi mio padre prese a scambiare qualche parola con gli amici più stretti, mamma a piangere e singhiozzare sonoramente. Io cercai di nascondermi il più possibile dietro le loro figure, sperando che nessuno notasse la mia espressione quasi del tutto incolore. Fortunatamente, quasi nessuno mi guardò direttamente o mi rivolse l’attenzione e, in pochi minuti, il cimitero si svuotò, lasciandoci soli con i becchini che avevano iniziato a riempire la fossa.

«Tutto ciò è così disdicevole,» sentenziò mia madre, quando ormai era certa che nessun orecchio esterno potesse udirla. «Il secondo Conte di Gloucester seppellito sotto terra come un pezzente qualunque! Non avrebbe approvato, lo sai bene.»

Mio padre, che dei tre era senza dubbio quello sinceramente provato, decise di ignorare il commento della moglie e rimase a osservare gli uomini intenti a lavorare.

Tuttavia, quello non scoraggiò mia madre dal continuare. «Sai bene che domani non si parlerà d’altro. Sai bene cosa diranno alle nostre spalle.»

«Che siamo poveri, Mary. Che lo abbiamo dovuto seppellire in una fossa qualunque poiché non abbiamo più una cripta di famiglia. Non capisco perché ti alteri tanto, è solo la verità,» rispose lui senza guardarla, tenendo le mani intrecciate dietro le reni, stoico e attento.

In quel momento adorai mio padre; non che non gli volessi bene, ma tra me e lui c’era sempre stato un profondo baratro e, per quanto sentissi che nutriva dell’affetto per me, nel corso degli anni era sempre stato freddo e distaccato nei miei confronti, come se cercasse volutamente di tenermi a distanza.

Mia madre affilò lo sguardo, poi sollevò le mani per scostarsi dal viso il sottile velo nero del cappellino e si avvicinò di un passo a mio padre, che continuava a ignorarla.

«È la verità solo perché tu l’hai fatta diventare tale: tu ci hai ridotto quasi alla povertà.»

Fu solo in quel momento che lui si voltò a guardarla, gli occhi neri ardevano come tizzoni.

«Se non vuoi essere schiaffeggiata in pubblico, donna, ti consiglio di tacere finché non saremo rincasati.»

Qualsiasi cosa avesse avuto intenzione di ribattere, morì sulle labbra di mia madre. La vedevo fremere nel suo sontuoso abito nero. Sapevo che stava combattendo contro ogni fibra del proprio essere per non rispondergli a tono. Si fissarono per qualche secondo e quasi sperai, quasi pregai, che lei fosse così testarda da continuare, ma alla fine liquidò il tutto con un gesto stizzito del mento. Rapida, calò il velo sul viso e, sollevandosi la gonna, prese a incamminarsi verso la nostra carrozza in attesa.

Rimasi lì, stretta nel mio misero scialle di lana, del tutto inutile al vento pungente di quella mattina di inizio primavera, e di fianco a un padre emotivamente distante o forse solo incapace di esprimere sentimenti.

Proprio come lo ero io.

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